Morire di dolcezza

Del cioccolato, come di qualsiasi altro argomento del resto, si può parlare da molteplici punti di vista.

Certamente il riferimento che sorge più immediato è quello del gusto.

La squisitezza del sapore, il godimento delle papille gustative, il senso di smemorante languore che segue al primo assaggio imponendo dopo una pausa più o meno breve di continuare.

Il cioccolato ha poi un suo perché anche dal punto di vista estetico, nella varietà quasi infinita delle sue possibili forme: in tavoletta, in polvere, in crema da spalmare, in torte, mousse, tondini ripieni.

Le sue metamorfosi sono più variegate di quelle illustrate nel poema di Ovidio.

I nostri cinque sensi sono tutti coinvolti dal dolce prodigio del cioccolato: con la vista si inizia ad apprezzare il colore del prodotto: più è scuro, più è ricco di cacao.

Con l’olfatto, si percepisce in una sorta di inebriante coinvolgimento la qualità della torrefazione; il gusto ci dà la conferma della fascinazione che ci ha avvinti premiandoci della paziente attesa (“in attendere è gioia più compìta”, scrive Eugenio Montale, ma se è vero che abbiamo goduto dell’attesa è più vero che il momento della degustazione è de factu il più gratificante, anche se, ahimè, dura poco e dipende da noi protrarne la delizia); ma con il cioccolato si può interagire anche con il tatto.

Le nostre dita lo tastano volentieri, può risultare liscio, impalpabile o leggermente rugoso, proprio come il collo della creatura amata.

E che dire del particolare effetto che esercita sul nostro udito quel “crac” secco, rapido, quasi crudele, che avvertiamo nello spezzare una tavoletta o dei quadratini?

Essendo l’udito, a detta di Schopenhauer, “il più filosofico dei sensi”, chissà a quali sconcertanti conclusioni potremmo giungere pensando al piccolo  brivido che induce in noi il suono sordamente cupo dello sgretolarsi di un uovo di Pasqua…

Molte le curiosità che si potrebbero citare a proposito del cioccolato.

Ad esempio, qual è il nome del procedimento che tende a oscurare la tinta del cacao?

La risposta, nota solo ai tecnici del mestiere, è “alcalinizzazione”.

Come si chiama il frutto dell’albero del cacao?

“Cabosse”.

Qual è il suo paese di origine? (Questa è più facile).

Il Messico.

Ma dato che per fortuna non stiamo partecipando a un quiz, passiamo a dati più raffinatamente culturali.

In letteratura, mi viene subito in mente la singolare pagina di “Metafisica dei tubi”, un improbabile romanzo di Amelie Nothomb, in cui la narratrice, una ragazza decisamente originale, ricorda di essere letteralmente tornata alla vita da un letargo durato dalla nascita a tre anni, in seguito al dono di una scatola di squisiti cioccolatini di Bruxelles da parte della nonna.

La piccola Amelie – giacchè si tratta di un libro autobiografico – non parlava, si muoveva a fatica, non relazionava con il prossimo, e solo il cioccolato riusciva a compiere il miracolo di ridarle la vita salvandola dall’autismo.

“Cioccolata a colazione” è il titolo di uno stupendo romanzo di Pamela Moore, scrittrice americana che qualcuno definisce “allieva” di Hemingway e che ha in comune con il famoso autore solo il suicidio con un colpo di fucile: la protagonista di questa vicenda si muove inizialmente nell’ovattata atmosfera di un college, poi nell’ambiente del cinema hollywoodiano – essendo la madre una nota attrice – e lancia la moda di un breakfast non a base di caffè ma di cioccolata.

Nel cinema più recente, la deliziosa Juliette Binoche si rivela una perfetta maestra dell’arte di cui stiamo parlando in “Chocolat”, riuscendo a conquistare con la sua dolcezza l’irriducibile vagabondo interpretato da Johnny Depp.

Ma il nostro elemento trova spazio anche nell’incantato mondo delle fiabe: chi non ricorda “La casetta di cioccolato”?

Questo titolo rievoca alla mia memoria delle  minuscole, quasi microscopiche scatolette piene zeppe di gianduia che si compravano dal lattaio (in anni ormai antidiluviani), fornite di un sottilissimo cucchiaino, infilato in una sorta di comignolo del tetto: vere e proprie casette di plastica – rosse, ma anche di altri colori – che una volta conclusa la ghiotta merenda si potevano conservare come pezzi di collezione.

Il cioccolato, o la cioccolata, in qualsiasi forma o metamorfosi ci si presenti, è decisamente uno dei più bei doni di questa terra.

Gli angeli e gli dei non possono goderne (l’ambrosia sarà ancora più squisita? Non credo. E sarà poi altrettanto energetica? Impossibile).

Eppure, c’è gente a cui il cioccolato non piace.

Incredibile, ma vero.

Del resto, a questo mondo tutto è possibile; quindi, anche un’assurdità del genere.

Io resto fedele al culto dell’unico reale e insostituibile conforto della vita.

Finché ci sarà il miraggio di una certa pallina marrone di cui non credo sia lecito qui citare il nome, ma anche di un rettangolo a più strati dal cremoso spessore, o di un semplice ovetto ricoperto di carta stagnola, potremo nutrire la speranza di “morire di dolcezza”.

Silvio Raffo