La festa

Il lago è la mia vera casa.

Se penso alla mia infanzia, penso al lago.

Se penso alla mia famiglia, penso al lago.

Non ci sono andato per venticinque anni.

Tornavo dal Canada giusto un paio di settimane all’anno e preferivo andare al mare.

Poi, la scorsa primavera, davanti al lago Ontario – così diverso dal lago Maggiore – ho capito che era ora di fare i conti col mio passato.

Cinquant’anni, metà da una parte, metà dall’altra dell’oceano Atlantico.

E così ora sono sul volo da Toronto: dopo tanti anni, finalmente verso casa.

È notte, ma non riesco a dormire.

Penso a quando ero bambino, a un’estate di tanti anni fa.

Era il quattordici agosto del millenovecentosettantadue, avevo dieci anni.

Il quattordici agosto è Sant’Alfredo, l’onomastico mio e del nonno.

Il nonno faceva una festa straordinaria e più di sessanta invitati arrivavano la mattina nella villa sul lago Maggiore, per ripartire la sera, dopo un pranzo, un torneo di bocce e biliardo e una cena.

Fin dal giorno prima, il custode, il giardiniere, le cameriere (Chiara e Cesarina, oltre duecento chili in due), e i loro aiutanti – i due nipoti di Chiara – preparavano i tavoli in giardino, all’ombra dell’enorme canfora.

Ricordo i mastelli con le stecche di ghiaccio sotto il portico, le bottiglie di vino allineate nei frigoriferi, l’agitazione della nonna – un’ospite perfetta.

La villa – una costruzione in stile fascista – è proprio sul lago, con due cancelli che danno sulla spiaggia.

Al centro del giardino, un campo da bocce, con ai lati sei grandi pini a fare ombra alle panchine di pietra per gli spettatori.

Al confine della proprietà la darsena, dove dal millenovecentosessantadue – anno della mia nascita – è custodito un Riva Florida.

Quella mattina il primo ad arrivare fu lo zio Luigi, da sempre il mio preferito.

Sentii il rombo del motore della sua Lamborghini Islero S verde metallizzato con gli interni sabbia e corsi in strada a salutarlo.

Non era solo, come al solito.

Insieme a lui c’era una ragazza venezuelana stupenda.

Lui portava una camicia alla coreana nera di lino e pantaloni a zampa di elefante rossi, ai piedi mocassini di Gucci senza calze.

Lei era strepitosa: gambe lunghe da gazzella, occhi e capelli neri.

Portava un mini abito di organzino stampato a fiori – senza reggiseno.

Ricordo ancora l’emozione del suo sorriso, i denti bianchissimi, le labbra piene e scure.

Lo zio non veniva mai a San Remo, nell’altra casa dei nonni – villa Mi Sol.

Al lago veniva giusto un paio di giorni ogni estate.

Se ne stava in barca a St.Tropez.

Ma, quando veniva al lago, portava ogni volta una ragazza nuova.

Sempre bellissima.

Avevo dieci anni: era il mio idolo.

Sognavo di diventare come lui.

Sognavo di viaggiare, vestirmi da playboy, guidare automobili sportive, fumare i sigari cubani – non i puzzolenti toscani – e cambiare ragazza ogni settimana.

Lui aveva trent’anni ed era bellissimo.

Alto, magro, occhi azzurri, capelli castani folti, ondulati, pettinati indietro a scoprire la fronte.

Attaccatura perfetta.

Era già stato sposato, aveva un figlio di otto anni, Alfredo – come me, come il nonno.

Strana famiglia, in tre con lo stesso nome.

Per questo hanno iniziato a chiamarmi Giulio, il mio secondo nome.

Gli corsi incontro e si abbassò a darmi un bacio.

Poi mi presentò Isabel.

Le strinsi la mano come un grande e lei disse: “Che carino. Ti somiglia.” Arrossii e cercai di cambiare discorso.

“Zio, mi porti a fare un giro sulla Lamborghini?”

“Dopo Giulio. Ora vado a salutare I nonni.”

“Mi lasci le chiavi?”

“Sì, ma non accendere il motore.”

Aprii la portiera e saltai in macchina.

Odore di cuoio e di fumo.

Il profumo dello zio nella tasca: Caron “Pour un homme.”

Restai qualche minuto a sognare.

St.Tropez, il sorriso di Isabel, una corsa sulla Lamborghini.

Frugai tra le sue cassette stereo 8: Charles Aznavour, Beatles, Gilbert Becaud, Bob Dylan, John Denver, Mina, Frank Sinatra, Barbra Streisand, Luigi Tenco, Ornella Vanoni, i Doors.

Chiusi la portiera e me ne tornai in giardino.

L’agitazione era massima.

Era mezzogiorno meno un quarto, tra poco sarebbero arrivati gli altri ospiti.

Nessuno aveva tempo di badare a un bambino.

Mio fratello – sette anni – stava giocando insieme ai miei cugini con i “Madelman” (grossi soldati snodati che si potevano vestire con mille divise differenti), nel prato davanti a casa.

Io non ne avevo voglia.

A bocce non si poteva giocare.

Il giardiniere e il suo aiutante avevano fatto il campo, tirando il pesante rullo di pietra (uno tirava il rullo e l’altro passava la scopa per togliere la sabbia attaccata al rullo e lasciare la superficie del campo perfettamente liscia) e facendo le righe con la pece.

Un’operazione che m’incuriosiva sempre: prima si passava lo spago nella pece.

Poi – sempre in due – tendevano lo spago alla distanza regolamentare, lo sollevavano con una mano, tenendolo fermo con l’altra e lo facevano schioccare in terra, imprimendo una riga perfetta sulla sabbia.

Il nonno non voleva che nessuno rovinasse il campo prima del torneo. Anche il biliardo era stato preparato.

A ogni angolo, i gessetti blu – rigorosamente nuovi.

Sulla specchiera segnapunti, borotalco da passare sulle mani, per far scivolare meglio la stecca.

Le stecche, in ordine di peso, perfettamente allineate nei loro alloggi.

Di solito, la mattina uscivo in barca a pescare.

Il nonno, per i miei dieci anni, mi aveva regalato una barca a remi.

Ma lo spettacolo dell’arrivo degli ospiti non volevo proprio perderlo.

Collezionavo automobiline.

Le tenevo in due vetrinette sopra il mio letto, a Milano.

L’arrivo degli ospiti era un sogno ad occhi aperti: Maserati Mexico, Jaguar E Type, il “Jaguarone” (MK10) del barone Palma…

Sentii un’altra automobile e corsi di nuovo in strada.

Era la Mercedes 280 SE sei cilindri del Commendator Ghezzi, identica a quella del nonno, che però aveva la 3.5 otto cilindri (sapevo tutto di automobili, la passione per gli orologi sarebbe arrivata molto più tardi). Erano gli anni dei titoli: Grand Ufficiale della Repubblica, Commendatore, Cavaliere.

Il nonno aveva tutti i titoli, ma proprio tutti, firmati dai vari Presidenti della Repubblica, incorniciati in corridoio, insieme alla medaglia d’oro ricevuta come partigiano e all’attestato di laurea in ingegneria al Politecnico di Milano, ancora dei tempi della monarchia.

Il Commendator Ghezzi era un uomo basso e tarchiato, con una moglie alta con i capelli biondi tinti e cotonati.

Non guidava, come il nonno aveva un autista.

Andai a salutarli, mentre scendevano dalla Mercedes e li accompagnai al cancello.

Poi domandai scusa e corsi in casa, passando dalla cucina (dove restavo ore intere, a giocare a carte con Annunzio l’autista, Chiara la cuoca e Cesarina) e gridai: “Cesarina, avverti i nonni che è arrivato il Commendator Ghezzi.”

Guai a non usare il titolo esatto: sarebbe stata una grave maleducazione.

Il nonno scese dalla scala che portava alle camere da letto e mi disse: “Grazie Giulio, ti ho sentito. Dove sono?”

“In giardino nonno, sono arrivati per primi, eccetto lo zio Luigi con una ragazza bellissima.”

Il nonno mi fece l’occhiolino e un grande sorriso e mi rispose: “Hai ragione, l’ho vista. Sono già venuti a salutare me e la nonna, di sopra in camera.”

Mio nonno.

Com’ero fiero di lui.

Aveva appena compiuto sessant’anni: sarebbe morto dopo pochi mesi.

Un infarto – il secondo, risolutivo.

Ma quel giorno non lo sapeva.

Era la sua festa ed era felice.

Dopo i Ghezzi arrivarono a poco a poco tutti gli altri ospiti.

Lo zio Carlo, sulla sua Mercedes SL “pagodina” bianca con gli interni rossi, i cugini di Lugano (milanesi come noi, ma rifugiati in Svizzera – e poi a Washington – per paura dei rapimenti) sulla Range Rover color senape.

Non arrivò nessuna Ferrari, ma una splendida Iso Grifo argento, nuova fiammante, guidata dall’Architetto Ravizza.

Volevo domandargli se mi faceva salire, ma era uno scapolo timido, di cui si raccontava una strana storia.

Un sabato sera, al Sant’Ambroeus, aveva bevuto un aperitivo con alcuni amici.

Al momento di pagare, si era accorto di essere uscito di casa senza soldi. La cassiera gli aveva fatto credito e lui, la settimana dopo, le aveva regalato una pelliccia per ringraziarla.

Vera o falsa, questa era la storia che avevano raccontato a un bambino di dieci anni – e da allora avevo un po’ timore di un uomo così schivo e generoso.

Gli ospiti si raggrupparono vicino al tavolo dei rinfreschi e iniziarono a prendere un aperitivo.

Nessuno mi osservava, così riuscii a farmi dare un bitter analcolico – che gioia, una bibita da adulto! – e mi misi seduto sul dondolo a guardare i grandi bere e chiacchierare.

Dopo un po’ arrivò la mamma – con un abito a disegni floreali di Ken Scott – che mi accompagnò alla tavola dei bambini insieme agli altri.

Odiavo la tavola dei bambini: ero il più grande e sarei più volentieri rimasto con i grandi.

Eravamo in otto, i soliti sei – sempre insieme – più i due cugini di Lugano.

L’unico vantaggio di essere al tavolo dei bambini – almeno quando mangiavamo in giardino, a casa e al ristorante proprio no – era che finito di mangiare potevamo alzarci e andarcene a giocare.

I grandi stavano a tavola anche più di un’ora, e quel giorno non fece eccezione.

I pranzi iniziavano sempre dall’antipasto: affettati misti, con l’immancabile salame Milano – che noi chiamavamo salsiccione – e il culatello.

Poi risotto giallo con la salsiccia, cotolette con patate e melanzane fritte e per finire liquori e pasticcini.

E la sera ricominciavano: ravioli, arrosto di codino con zucchine e carote, zabaione.

Non c’è da stupirsi che la maggior parte degli uomini di quell’epoca morissero a sessant’anni: mangiavano e bevevano in un pranzo (il quattordici di agosto, con una temperatura vicina ai ventisei gradi) più di quanto io faccia oggi in una settimana.

Dopo un brindisi con lo champagne e gli ultimi liquori, il nonno offrì agli amici i suoi lunghi sigari cubani, Romeo y Julieta numero 2.

Poi, iniziò il torneo di bocce e biliardo e le signore e noi bambini passavamo dal campo da bocce alla sala da biliardo per veder giocare i più bravi.

Di certo, il nonno era un fuoriclasse.

In coppia con lo zio Luigi, erano imbattibili.

Ma che strana coppia.

Il nonno con i pantaloni blu, la camicia bianca su misura – fatta da Siniscalchi – con le iniziali ricamate a mano (come sui suoi fazzoletti con l’orlo a mano, che ho conservato come reliquie per vent’anni) e le scarpe nere stringate (di D’Agata o di Ronchi), lo zio vestito come un torero, con la camicia alla coreana nera di lino, i pantaloni a zampa di elefante rossi e i mocassini di Gucci.

Erano l’immagine dell’Italia che cambiava: il padre patriarca, cinque figli, una fortuna accumulata lavorando dodici ore al giorno, sei giorni la settimana.

Il figlio, non ancora pittore di successo, aveva lavorato sette anni in tutto in una delle industrie del padre, per poi convincerlo a venderla “guadagnando un mucchio di milioni”, come diceva il nonno ridendo – quasi a giustificare la vita allegra dello zio.

Il padre fedele e innamorato di sua moglie.

Il figlio playboy, con alle spalle – a trent’anni – un matrimonio annullato dalla Sacra Rota, nonostante la nascita di un figlio.

Bastava pagare e tutto era possibile.

Forse era la base per lo sfacelo di oggi, ma allora sembrava uno dei vantaggi del boom economico.

Per tutto il pomeriggio gli uomini si sfidarono a coppie, bevendo vino bianco o birra tra una bocciata e un filotto e aumentando il loro tasso alcolemico, mentre le mogli restavano all’ombra a chiacchierare o riposare sulle sdraio.

La piscina non c’era ancora, ma dubito che quelle signore – che a me sembravano vecchissime ma avevano tra i cinquantacinque e i sessant’anni – si sarebbero messe in costume da bagno.

Mia nonna qualche volta veniva in spiaggia a San Remo, ma restava completamente vestita e col cappello anche sotto l’ombrellone.

Non l’ho mai vista nuotare, anche se lei diceva di essere bravissima e veniva ad assistere alle mie lezioni, facendosi portare dal bagnino la sdraio sul bagnasciuga.

Tutti sembravano divertirsi, eccetto mio padre.

Lui detestava Sant’Alfredo ed era sempre di cattivo umore.

A dieci anni, credevo che fosse perché giocava malissimo a bocce.

A biliardo se la cavava, ma a bocce era negato.

Quindi perdeva sempre e se ne stava in disparte.

Non che me ne importasse granché.

Con me non faceva mai nulla: non mi portava a pescare, non giocava a tennis, a ping-pong lo battevo e se la prendeva.

Mio fratello nonostante tutto pendeva dalle sue labbra.

Io no.

Il mio modello era lo zio Luigi.

Verso sera, dopo la premiazione del torneo, gli uomini andarono in mansarda e si misero a suonare.

Mio nonno suonava la chitarra, i figli di sua sorella il pianoforte, il mandolino, lo xilofono e la batteria.

Uno degli ospiti suonava la fisarmonica.

Suonavano bene.

E cantavano.

Al nonno piaceva ascoltare musica classica – e aveva un palco alla Scala – ma con gli amici cantava le canzoni di Walter Valdi, in Milanese.

Penso di non aver mai più visto qualcuno divertirsi come quegli uomini di sessant’anni, con le camicie bianche, a volte le bretelle, ubriachi in mansarda a cantare La gh’ha ona faccia de cu de can de caccia (ha la faccia come il culo di un cane da caccia): amici di sessant’anni che giocavano come bambini.

Forse è questo il bello dell’amicizia: lasciarsi andare, tornare bambini, almeno per un attimo.

Noi piccoli cenammo prima dei grandi e poi andammo a letto.

Dalla mia stanza sentivo i saluti, le automobili partire, le cameriere sparecchiare i tavoli.

Non potevo saperlo, ma era l’ultima volta.

Apro gli occhi, stiamo per atterrare.

Cosa resta del mio passato?

Venticinque anni lontano da casa hanno cristallizzato i miei ricordi del lago e delle persone.

Sarà ancora come una volta?

Penso alla vita del nonno, così diversa dalla mia.

Lui era il centro del suo mondo: cinque figli, sette nipoti, Chiara e Cesarina a prendersi cura della casa.

Io sono solo, separato, dall’altra parte del mondo a insegnare letteratura ai ragazzi canadesi.

La sua vita mi sembra così più importante della mia…

Una vita si può definire più importante di un’altra?

Mentre scendiamo verso Malpensa, scrivo sul Moleskine questi versi, in italiano.

I miei primi versi in italiano dopo molti anni:

“La vita

La vita è il tempo che ci è dato

un album da riempire

uno spazio vuoto

una fiamma che si accende

una stella cadente

un fuoco d’artificio

tutto ciò che abbiamo

l’unica occasione

la nostra dimensione.

La vita è una catena

non siamo che un anello

ciascuno diverso persino dal fratello

un’opera d’arte

se ne scorgi il disegno

un capolavoro

se osservi il decoro

un semplice anello

se vedi solo quello.

La vita va plasmata

goduta

assaporata

affrontata con coraggio

da romantici in viaggio

sognando senza posa

costruendo qualcosa

sprecarla è il peccato

di chi non l’ha capito.”

Finisco di scrivere proprio mentre tocchiamo terra.

Sto tornando a casa.

Alfredo Tocchi