La scatoletta di “Schokolade”

Nella tarda estate del 1943, a causa dei bombardamenti degli americani sempre più insistenti sulla ferrovia del Brennero, dove transitavano gran parte dei convogli militari tedeschi, ed anche su Verona, la città dove abitavamo, mio padre riuscì a trovare a Sommacampagna, un paesino a circa tredici chilometri dalla città, alcune stanze a pianterreno ed al primo piano di una grande villa dove sfollare per vivere in condizioni di maggiore sicurezza.

La villa era situata in un parco vastissimo dove noi ragazzi, avendo sempre vissuto chiusi in appartamento, potevamo finalmente correre a perdifiato senza pericoli e controlli.

Il complesso apparteneva ad una coppia di industriali milanesi senza figli, proprietari della ditta Tricofilina, allora famosa per la brillantina, che abitavano nell’ala centrale della villa.

In un’ala laterale dello stesso edificio erano alloggiati anche alcuni alti ufficiali tedeschi, mentre un solitario colonnello della Wermacht dormiva in una cameretta vicina alla camera dove dormivo io col mio fratello maggiore.

Questo colonnello parlava ottimamente l’italiano in quanto credo fosse originario dell’alto Adige; d’altra parte, dopo il 1943, molti militari italiani del sud Tirolo che parlavano correntemente la lingua tedesca, erano confluiti sia nella Wehrmacht che nelle SS e nella Ghestapo.

Ad esempio altoatesini erano i ragazzi del battaglione SS Polizei “Bozen”, sterminati nell’attentato di via Rasella a Roma nel marzo del 1944.

Il colonnello, un omone corpulento e pacioso, scambiava ogni tanto qualche rara parola con noi ragazzi (io avevo allora otto anni e mio fratello nove) e ricordo che una volta mi fece entrare nella sua camera per mostrarmi e descrivere le armi che possedeva.

Si trattava di una baionetta da parata col pomolo a becco d’aquila istoriato nel manico con l’aquila che sormontava la croce uncinata circondata da una corona d’alloro, e di una pistola Luger, un oggetto stupendo per la sua meccanica e la sua estetica che aveva eccitato in me, dotato di una pistola ammaccata di latta, un desiderio irrefrenabile di possesso; dopo oltre settanta anni la ricordo ancora perfettamente!

Non capivamo bene quali compiti avesse questo ufficiale e francamente cosa facesse tutto il giorno in quanto stava spesso chiuso per ore in camera.

Intanto la guerra proseguiva implacabilmente, a sera ascoltavamo a bassissimo volume Radio Londra e quasi ogni giorno stormi compatti delle gigantesche “fortezze volanti” (i B24 Liberator) americani solcavano il cielo bombardando in particolare l’aeroporto militare di Villafranca distante pochi chilometri da noi.

Dopo l’8 settembre 1943, a seguito dell’invasione tedesca, l’aeroporto era stato notevolmente potenziato con una pista in cemento di quasi tre chilometri con hangar e depositi di materiale militare che arrivavano assai vicino all’abitato di Sommacampagna.

Ci fu un intenso bombardamento alleato il 12 ottobre 1943 ed un altro, che colpì parzialmente anche Sommacampagna, il 26 agosto 1944 con la distruzione di obiettivi militari ma anche di vaste zone di campagna.

La Luftwaffe aveva schierato nell’aeroporto sia caccia tipo Stukas che grossi bombardieri Junker; l’aeroporto venne in seguito completamente distrutto dai bombardamenti degli alleati e dai soldati tedeschi prima di fuggire verso il nord.

Per noi ragazzi il momento magico era la fine dei bombardamenti annunciato dal suono cupo delle sirene; allora ci scatenavamo nel grande parco della villa alla ricerca di oggetti bellici soprattutto schegge di bombe e bossoli di ogni dimensione.

Ne trovavamo in grande quantità e li mercanteggiavamo con i ragazzi del paese o con i figli di altre famiglie sfollate.

Per noi, con l’incoscienza tipica di quell’età, la guerra, soprattutto durante i bombardamenti notturni dove i colpi delle batterie contraeree, i fasci di luce dei fari contraerei, i luminosissimi bengala, i lampi accecanti delle bombe e degli spezzoni incendiari, riempivano l’immenso schermo del cielo, era uno spettacolo terribile ma affascinante.

Vivendo in campagna non si avvertiva una reale penuria di cibo, c’era latte in abbondanza col quale mia madre, agitandolo per ore in una bottiglia ben tappata, riusciva a produrre striminziti panini di burro, ed anche, non so con quali arti magiche, delle formaggelle mollicce ma buone.

Mancavano completamente i salumi e, per noi ragazzi cosa molto importante, ogni tipo di dolciume e particolarmente l’adorato cioccolato.

Ma nel giugno del 1944 avvenne un fatto per me memorabile per la gioia che provo ancora oggi a ricordarlo.

Noi studiavamo in casa con un mite e bravissimo professore che ci preparava per l’esame di ammissione all’anno scolastico successivo da dare da esterni nella scuola elementare di Verona che non avevamo potuto frequentare.

A metà giugno del 1944 dovevo recarmi a Verona a sostenere l’esame per cui mi ero alzato di buon’ora in quanto il mezzo per andare in città era costituito dalla canna della bicicletta dello stradino di Sommacampagna, un buon uomo di mezza età, che si prestava, sbuffando come una locomotiva appena la strada pianeggiante presentava anche una minima salita, ad accompagnarci pedalando fino alla scuola e poi, ad esame concluso, a riportarci in paese.

Il colonnello altoatesino mi vide mentre mi appollaiavo, con tanto di cartella, sulla bici dello stradino e mi chiese dove fossi diretto.

A sostenere l’esame, gli risposi, e speriamo che vada tutto bene.

L’omone mi fece un sorriso e mi promise, se fossi stato promosso, una scatoletta di cioccolato che loro, come ufficiali della Wehrmacht, avevano modo di reperire.

Mantenne la promessa, al mio ritorno mi regalò una scatoletta circolare di latta, che conservo ancora gelosamente, con scritto sul bordo del coperchio “Scho-ka-kola – die Stärkende Schokolade” e sul retro “Wehrmacht-Packung. Hildebrand – Berlin” e la composizione dettagliata dei cento grammi di prodotto che includeva caffeina e cola.

Sicuramente era un cioccolato energetico ed eccitante, da…..”combattimento”.

Per me fu forse il cioccolato più buono che avessi mai mangiato in quegli anni di guerra, solo poi con l’arrivo degli americani nella primavera del 1945, ritornò sulle nostre tavole questo “cibo degli dei”.

Oggi ricordo ancora con gratitudine quel compito ufficiale che con quella scatoletta mi aveva regalato un momento di felicità.

Avvicinandosi gli alleati, nei primi mesi del 1945, improvvisamente il colonnello scomparve lasciando armi e divise nella sua cameretta.

Sembra che si fosse travestito da prete, aveva un po’ il fisico e l’aria bonaria da pretone di campagna, ed avesse intrapreso una fuga verso l’Austria.

Non sapemmo più nulla di lui.

Quando ho mostrato alle mie nipotine quella scatoletta di latta ho fatto molta fatica a spiegare cosa avesse rappresentato per me in quegli anni quel po’ di cioccolato; mentre raccontavo mi accorgevo sempre più che parlavo di cose troppo lontane dal loro mondo e dalla di vita di oggi.

La mia esperienza di gioia infantile difficilmente poteva trovare posto nel loro sentire se non a livello di una curiosa storia d’altri tempi, un po’ irreale ed a lieto fine!

Francesco Cappellani