La musica del dissenso. Il dissenso e la musica

Ci sono stati momenti nella storia in cui l’espressione del dissenso è rientrata fra i diritti ovvi e normali dell’esistenza, e altri in cui essa è stata fermamente negata.

Ci sono stati luoghi che hanno ammesso la libertà di pensiero, altri dove le parole era bene sussurrarle, e altri ancora dove nemmeno il bisbiglio era concesso, luoghi dove il silenzio rappresentava la via maestra verso il diritto alla vecchiaia.

Momenti e luoghi che esistono ancora, nel bene e nel male.

La storia della musica, come del resto tutte le storie, è la somma di questi momenti e luoghi e, a guardarla dall’alto, ne costituisce il loro e più ingombrante riflesso.

Quelli che seguono sono solo alcuni fra i tanti esempi possibili…

 

Che un musicista del XIX secolo fosse anche un rivoluzionario, e quindi avesse facoltà di esprimere tutto il proprio dissenso, per esempio nei riguardi delle tradizioni più radicate, rientrava nell’ordine del pensiero romantico.

Beethoven e Wagner esistono non solo in quanto geni assoluti della musica, ma anche perché hanno potuto esprimersi in un’epoca che era letteralmente alla ricerca del nuovo, dell’inaudito e, perché no, dell’effetto.

Entrambi, a loro modo, dissentivano: Beethoven nei riguardi della figura del compositore, intesa come quella del servitore al servizio di corti, nobili e nobilastri poco o nulla consapevoli del loro talento; Wagner nei confronti dell’opera italiana.

Fatto sta che Beethoven è stato uno dei primi musicisti a leggere e a meditare Kant (la superiorità individuale, in fondo, deriva anche da ciò che si frequenta nel corso dell’esistenza), mentre Wagner ha dato vita all’opera tedesca: tedesca perché in tedesco e perché fondata su miti e leggende proprie della cultura tedesca (c’è anche molto altro, naturalmente, ma fermiamoci qui).

In Germania aleggiava grande rispetto nei confronti del genio, che proprio in quanto tale tende per sua natura verso il dissenso.

Anzi, lo si incoraggiava in tutti i modi possibili.

A Beethoven, proprio per evitargli di vestire i panni del servitore, fu corrisposta una somma con carattere di vitalizio, mentre a Wagner fu concesso di progettare e costruire il suo avveniristico Teatro con la folle complicità di Ludwig II di Baviera.

Insomma, ci sono luoghi dove il ‘dissenso’ è stato in certa misura addirittura finanziato.

Contemporaneamente, in Italia, il dissenso era invece tenuto a freno dalla censura, ossia da un manipolo di burocrati-bacchettoni ben felici di poter ostacolare la corsa del nostro Beethoven nazionale: Giuseppe Verdi.

Ogni parola, ogni virgola dei sui libretti, finiva così sul bilancino della censura, non facilitando certo il compito al nostro eroe.

Certo, Wagner si esprimeva con un linguaggio oscuro, e usava i miti come metafore del mondo moderno.

Quale censura avrebbe mai potuto capire che dietro al nano Alberich, che maledice l’amore pur di afferrare l’oro alle Ondine del Reno, si nascondeva l’ebreo, pronto a tutto pur di soddisfare la propria avidità e brama di potere?

Wagner, del resto, era troppo scaltro per pensare di ridicolizzare la figura dell’ebreo in quanto tale, e perciò ha usato una maschera.

Il linguaggio di Verdi, invece, è sempre stato molto diretto: da buon contadino, da ‘uomo delle Roncole’, come amava definirsi, le cose le diceva in faccia, senza giri di parole.

D’altra parte, se il teatro di Verdi è diventato popolare, e quello di Wagner no, lo si deve anche a questo, ma è certamente per la stessa ragione che con Verdi la censura ha avuto gioco facile.

Entrando nella locanda di Sparafucile il Duca del Rigoletto chiede, senza mezzi termini, e per precisa volontà di Verdi, “Tua sorella e del vino”.

La censura s’offese, ovvio!, e sostituì la “sorella” con “una stanza”, con buona pace di santa madre chiesa, intollerante nei confronti di un uomo che manifestava così apertamente i suoi pruriti verso una femmina.

Non-si–può!

Verdi dovette perciò ingoiare il rospo, ma in molte altre occasioni ebbe una maggiore libertà d’azione, specie quando il proprio dissenso lo esprimeva non tanto nell’uso di un linguaggio ruspante ma proibito, quanto piuttosto nei confronti delle ‘convenienze’, vale a dire delle convenzioni vigenti nell’opera italiana dell’Ottocento.

Per la censura, queste erano faccende che riguardavano esclusivamente gli artisti e il loro mondo, e il più delle volte non infilava becco.

Sicché, quando Verdi compose Macbeth chiese all’impresario della Pergola che si adoperasse in prima persona affinché il cantante che aveva interpretato la parte di Banquo da vivo, continuasse a farlo anche dopo la sua morte.

Insomma, chiese che facesse anche la parte del fantasma di Banquo e si evitasse così di ricorrere a una controfigura, il cui fisico non sarebbe mai stato identico a quello del protagonista.

Niente da fare.

Il cantante in questione si rifiutò, sostenendo che i cantanti sono pagati per cantare e non per fare gli spettri.

Insomma, quando non aveva contro la censura, aveva contro la stessa macchina teatrale.

Del resto egli era un innovatore, e lo era a tal punto che nessuna delle sue ventisei opere poté essere rappresentata senza che ci fossero discussioni, ora con gli impresari, ora con i cantanti, ora con la censura.

Alla fine, però, l’ha spuntata, direi che ha vinto su quasi tutti i fronti, anche su quello più difficile dei burocrati.

I quali, per esempio, vista l’ambientazione (la Spagna) e l’epoca (il 1560), lasciarono passare nel Don Carlo una triste verità tutta italiana.

Eccola: “Dunque il Trono piegar dovrà sempre all’Altare”, un chiaro riferimento alla supremazia della chiesa nei riguardi del potere temporale.

Verdi non si lasciò certo sfuggire l’occasione e fece sì che questa verità emergesse al termine di una lunga scena musicalmente infernale; una delle scene più fosche, nere, anzi nerissime, mai uscita dalla sua penna.

Come se ha parlare non fossero Filippo e il Grande Inquisitore, ma Satana e le forze del male al gran completo, in presa diretta dall’inferno.

Verdi finiva così col puntare il dito contro una realtà che, tramite questa musica tremenda e sinistra, assumeva i connotati mitologici del peccato originale, del male assoluto reso manifesto.

Che Verdi a volte la spuntasse nei confronti della censura italiana, non fa impressione.

Come del resto non fa impressione assistere, in tutt’altro luogo e contesto storico, alla sconfitta di un genio ad opera di un regime.

Unione Sovietica, 1934.

Va in scena uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi: la Lady Macbeth del Distretto di Mcensk di Dmitrj Šostakovič.

L’opera ha un successo straordinario, divenendo ben presto popolare nonostante una musica di non sempre facile ascolto.

Incuriosito da tanto successo il compagno Stalin decise di assistervi di persona.

Era il 1935, era dicembre e faceva un freddo cane.

Questo però non gli impedì di uscire scocciato di Teatro prima dell’inizio del terzo atto.

Nel gennaio del 1936 la Pravda pubblicò un articolo tristemente passato alla storia, ‘Caos anziché musica’, una denuncia contro la cacofonia musicale, contro ogni forma di modernismo, contro l’originalità a tutti i costi, difetti che l’anonimo giornalista rinveniva con preoccupante concentrazione proprio nella Lady del giovane compositore.

Era una denuncia di partito, una presa di posizione dietro alla quale, oggi sappiamo, c’era Stalin in persona.

Era, insomma, il ‘sistema’ che si coalizzava contro l’artista, reo di aver raccontato un pezzo di società russa con imbarazzante realismo, in un modo, cioè, che se da un lato toccava le corde della tristezza, della violenza, dell’ignoranza, del sarcasmo, della crudeltà, dall’altra lasciava “incomprensibilmente” inoperose quelle del sorridente ottimismo dei coloratissimi manifesti di partito.

Ancora una volta: non-si-può!

A ben vedere quello di Šostakovič è il caso forse più eclatante dell’artista che prima ancora di esprimere il proprio dissenso, si ritrova oggetto del dissenso di regime.

Šostakovič ne uscirà parzialmente sconfitto e mai più, dopo quella dolorosa esperienza, affiancherà alla sua pur copiosa produzione strumentale, un’altra opera in musica.

La Lady sarebbe stata la sua ultima esperienza nel genere.

L’Unione Sovietica aveva messo a tacere quello che per genio e talento sarebbe potuto diventare il grande Verdi russo del XX secolo.

Ma sì, facciamoci del male.

Luoghi e momenti, si diceva.

C’è un caso eclatante, nella storia musicale, di un dissenso che nasce dall’indifferenza collettiva nei confronti di chi comanda.

E’ un episodio che vede addirittura protagonista il Papa.

Siamo nella Francia del XIV secolo, e per la precisione a Parigi.

Qui c’è l’università dove la musica è materia di studio in quanto appartenente alle discipline del Quadrivium (matematica, astronomia, geometria e musica).

Proprio qui, perciò, si compiono i più grandi progressi in materia, specie per quanto riguarda la misura del tempo: il ritmo.

Nei due secoli precedenti, l’unica divisione ritmica ammessa era su base ternaria.

Tre è il numero perfetto, è la Trinità, sembrava perciò del tutto naturale che anche la musica si piegasse alle simbologie bibliche.

Nel XIV secolo, però, alcuni studiosi si resero conto che ciò che va bene per la Bibbia, non è detto che vada bene anche per l’arte.

Sicché costoro introdussero anche la divisione binaria.

Naturalmente quella ternaria si meritò il titolo di ‘perfetta’ mentre quella binaria fu bollata come ‘imperfetta’, anche se questo non fu sufficiente a occultare le reali intenzioni di questi dissidenti che, in definitiva, stavano sdoganando la divisione binaria legittimandone l’uso accanto a quella ternaria.

Il Papa, Giovanni XXII, intervenne di persona, con un documento ufficiale attraverso il quale dissentiva nei riguardi della nuova trovata.

Ma nonostante l’autorevolezza del dissenziente, i musicisti continuarono a ritenere che la notazione binaria fosse “cosa buona e giusta” e che accanto alla ternaria, essa contribuisse a dare varietà alla musica.

Sicché fecero spallucce.

Anzi, uno di loro, uno dei più grandi, Guillaume de Machaut, si premurò di rispondere indirettamente al Papa componendo una grande Messa polifonica, molte parti della quale erano scritte in tempo binario.

Fra queste, anche quella teologicamente più ‘delicata’, il Credo, che egli provocatoriamente disseminò di ritmi imperfetti.

Ne uscì un capolavoro passato alla storia.

Il Papa aveva dissentito dal progresso musicale, i musicisti dissentiranno dal Papa.

“Io Credo…”, sembrava dirgli Machaut, “…ma su base due”.

Fabio Sartorelli