Cavour, il patriota liberale

Ho rinvenuto casualmente presso una libreria antiquaria di Vienna una biografia di Camillo Benso conte di Cavour della nobildonna di origine britannica Evelyn Lilian Hazeldine Carrington, contessa Martinengo Cesaresco, pubblicata a Londra nel 1898.

Evelyn Cesaresco Martinengo, il cui suocero aveva preso parte alle Dieci Giornate di Brescia, scrisse alcune opere di divulgazione sul Risorgimento italiano, tra cui ‘Italian Characters in the Epoch of Unification – Patriotti Italiani’ e ‘The Liberation of Italy (1815-1870)’, oltre alla biografia di Cavour, tutte, più o meno, apologetiche e smaccatamente filo-italiane.

Non si tratta certo di un’opera inedita (è reperibile in e-book su Gutenberg) né fondamentale per gli studi cavouriani, ma si tratta pur sempre di uno spunto interessante per alcune riflessioni.

In particolare, da questa appassionata biografia, emerge la simpatia con cui da oltremanica si guardava al nostro Risorgimento ed allo stesso Cavour.

 

Cosa resta dell’eredità di Cavour?

Sembrerebbe il titolo di un convegno di storici o di vecchi liberali se non fosse che, per l’assoluta identificazione dello statista piemontese con la causa nazionale, l’eredità di Cavour è costituita dallo stesso Stato italiano.

Dopo gli eccessi di retorica delle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia, sul finire dello stesso anno, il 2011, lo Stato italiano ha dovuto accettare diktat esterni, cambiare governo sotto la pressione di Stati stranieri e, perfino, della stessa stampa britannica che aveva plaudito, nel 1861, alla sua nascita.

Le limitazioni alla sovranità nazionale, una delle conseguenze dell’abdicazione alla sovranità monetaria, ricordano molto quelle imposte dal vincitore dopo una guerra perduta.

 

“ Je suis italien avant tout, et c’ést pour faire jouir à mon pays du ‘self government’ à l’intérieur  comme à l’extérieur, que j’ai entrepris la rude tâche de chasser l’Autriche de l’Italie sans y substituer la domination d’aucune autre Puissance “. Cosí scriveva Cavour a Massimo d’Azeglio nel 1860.

Nel ‘self government à l’intérieur comme à l’extérieur’  risiede tutta l’eredità di Cavour, ovvero l’indipendenza nazionale come condizione imprescindibile di un governo liberale all’interno che consentisse agli italiani, di affrancarsi da secoli di dominazione straniera e di oppressione domestica.

La rimozione delle influenze straniere dalla penisola, che per secoli ne avevano garantito la frammentazione e mantenuto l’Italia in uno stato di arretratezza economica, era la condizione necessaria per il ‘Risorgimento’, senza la quale non sarebbe mai stato possibile lanciare quel profondo processo di trasformazione che ha gettato le basi del moderno Stato italiano.

La ‘cacciata’ dell’Austria non portò, come ai tempi del primo Napoleone, ad una rinnovata egemonia francese ma, grazie all’efficace e spesso spregiudicata diplomazia cavouriana, volta a sfruttare abilmente i timori britannici di un rafforzamento della Francia nel Mediterraneo, alla creazione di uno Stato italiano indipendente anche se perfettamente integrato nel concerto europeo.

Il ‘Self Government’ all’interno, nel disegno cavouriano, avrebbe dovuto liberare le energie imprenditoriali attraverso la rimozione delle barriere agli scambi ed all’integrazione economica della penisola rappresentata dagli Stati preunitari.

Per conseguire tale obiettivo, Cavour, lungi dal porre le basi di un’egemonia piemontese, sacrificò gli interessi dello Stato sardo, ad esempio accettando il sacrificio di Nizza e della Savoia, come prezzo da pagare per l’annessione di Emilia e Toscana: Cavor, inoltre, pur non avendola mai visitata, fissò chiaramente l’obiettivo di fare di Roma la capitale del nuovo Stato, al posto di Torino, forse più allora attrezzata a svolgere tale ruolo.

Il termine ‘Self Government’ utilizzato da Cavour, si riferisce anche all’organizzazione dello Stato che egli auspicava più ispirato al ‘local government’ britannico che al centralismo napoleonico.

L’appoggio di Cavour alla proposta avanzata di Minghetti – poi respinta dalla Camera – volta ad introdurre forme di autonomia regionale, è stata interpretata, col senno di poi, come una preferenza dello statista piemontese per un ordinamento simile a quello istituito in età repubblicana se non, addirittura, per il federalismo.

In realtà sembra che Cavour si rendesse ben presto conto che l’introduzione di elementi di autonomia regionale nel nuovo Stato ne avrebbe probabilmente minacciato l’esistenza, reintroducendo i particolarismi e le inefficienze che l’annessione degli Stati preunitari aveva consentito di superare.

A ciò si aggiunge la sua stessa esperienza di amministratore quale sindaco di Grinzane, che gli aveva fatto apprezzare i vantaggi, per le caratteristiche italiane, del decentramento a livello comunale e, al massimo, provinciale.

L’ordinamento articolato su comuni e province ed incentrato sulla figura del Prefetto, che Ricasoli estese al resto d’Italia dopo la morte di Cavour, venne duramente contestato dai fautori del regionalismo, che alla fine riuscirono, con la Costituzione del 1948, a far prevalere le loro tesi.

Si deve tuttavia ricordare che, durante il dibattito in seno alla Costituente, le argomentazioni più consistenti e fondate contro l’istituzione delle regioni vennero avanzate dagli eredi storici della tradizione risorgimentale, come Benedetto Croce e Francesco Saverio Nitti, i cui moniti circa le conseguenze dell’ordinamento regionale sulle finanze dello Stato suonano oggi profetiche.

L’opposizione ai “venti stivaletti”, come li definì efficacemente Giovannino Guareschi, venne curiosamente condivisa (ma neanche tanto, data la struttura centralista del PCI), anche da Togliatti, che temeva il formarsi di microstati.

In seguito, tuttavia, il partito del ‘migliore’ risultò uno dei principali beneficiari – nel corso della ‘lunga marcia’ di avvicinamento al potere – della creazione delle Regioni.

Nella stessa nazione spesso presa a modello da Cavour e dai suoi seguaci, la Gran Bretagna, la recente ‘devolution’, che ha portato all’istituzione dei parlamenti e dei governi regionali, ha comportato un significativo incremento delle spese statali oltre ad aver fatto balenare la minaccia dell’insensata ‘secessione scozzese’, che finirebbe per ulteriormente declassare il Regno Unito in Europa.

‘Self Government’ all’interno, tuttavia, nel contesto attuale, può essere visto anche come la permanente indicazione per una società nella quale il ruolo dello Stato – lo stato centrale ovvero la costellazione di enti locali, a cominciare dalle Regioni – sia ridimensionato, a vantaggio dell’iniziativa privata e del mercato.

Sotto questo aspetto, la storiografia ha sempre sottolineato il ruolo importante attribuito da Cavour all’intervento pubblico, specie nel settore delle infrastrutture e dell’istruzione, dimenticando, tuttavia, la sua strenua battaglia a favore del libero scambio.

Il successo del Cavour statista ha poi messo in secondo piano le fortune dell’imprenditore agricolo, che ne fecero uno degli uomini più ricchi del Piemonte.

Nella tenuta modello di Leri, di cui Cavour si occupò sino agli ultimi giorni, egli introdusse alcune moderne tecniche di coltivazioni apprese in Inghilterra e l’elevata redditività da essa raggiunta testimonia dello spirito imprenditoriale e della propensione al rischio di impresa che caratterizzano la figura di Cavour e che ritroviamo nella sua azione di governo.

Italiano, anzi, arcitaliano, e liberale, statista ed imprenditore, uno dei pochi uomini politici italiani che non provenisse dalla professione forense e con una spiccata propensione per la matematica, amante del rischio ma totalmente dedicato alla causa nazionale ed al servizio dello Stato, un uomo perfettamente a suo agio all’estero quanto a disagio entro i confini angusti (fisici ma soprattutto culturali) della sua nazione, insomma, una figura talmente distante dal paradigma ricorrente sulla nostra scena politica da farci seriamente dubitare della sua esistenza.

Eppure è esistito e, nonostante tutto e nonostante Garibaldi, l’Italia l´ha fatta sul serio.

Emanuele Farruggia