La Memoria: 3° parte

Si potrebbe obiettare che, peraltro, la memoria ha una funzione assolutamente centrale nella filosofia platonica. Per Platone, difatti, sapere è ricordare, in quanto frutto di un’anámnēsis.

Questa concezione è anche frutto di una mutazione di Mnemosine, la quale ci riporta al mosaico da cui avevamo preso le mosse, per cui essa è anche la dea che riconduce l’uomo alle sue originarie “radici”.

 

Non a caso, nel mosaico richiamato, la Dea è raffigurata nell’atto di “prendere per i capelli” un iniziato o, forse, un defunto.

L’accostamento non è affatto casuale. Alla memoria (e/o alla sua perdita) gli Antichi – ed in particolare i seguaci dei riti orfici e misterici, addirittura presocratici, e sempre più numerosi a mano a mano che quella che oggi diremmo l’“angoscia esistenziale” andò a poco a poco sempre più diffondendosi nel mondo ellenistico-romano – erano soliti ricollegare i momenti sia della morte sia dell’iniziazione. Momenti fra loro affini: che cos’è la morte, se non l’iniziazione a un’altra vita? E che cos’è l’iniziazione, se non il morire alla banale quotidianità del nostro vivere?

Lo attestano le laminette auree scoperte solitamente in tombe, ripiegate con cura e inserite nella mano o nella bocca, oppure appoggiate sul petto del morto, che ci parlano di speranza e di timore, e soprattutto dell’esigenza d’essere sicuri, una volta morti, di non sbagliare strada. Veri e propri “percorsi” per orientarsi nel mondo ultraterreno, esse racchiudono dettagliate istruzioni (su dove andare e su che cosa fare e dire una volta cominciato il viaggio al di là della vita) pressoché identiche a quelle dei riti iniziatici.

Come nelle laminette votive, l’iniziato ai misteri beve dell’acqua che ridà memoria (Mnemosine, appunto) e si presenta come un essere divino, figlio di Terra e Cielo, parte egli stesso di una natura ultraterrena, che, nel momento della sua vita da uomo, ha dimenticato, ma che ora deve ricordare, per poter partecipare dell’immortalità.

 

Vediamo ad esempio tre testi, entrambi risalenti al IV secolo a. C., il primo ritrovato a Hipponion, l’attuale Vibo Valentia, la seconda a Petelia, in Calabria, la terza in Tessaglia. Il che attesta l’ampiezza del fenomeno:

 

“A Mnemosine è sacro questo (dettato): (per il mystes) quando sia sul punto di morire.

Andrai alle case ben costrutte di Ade: v’è sulla destra una fonte,

accanto ad essa si erge un bianco cipresso;

lì discendono le anime dei morti per avere refrigerio.

A questa fonte non accostarti neppure;

ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre

dal lago di Mnemosine: vi stanno innanzi custodi,

ed essi ti chiederanno, in sicuro discernimento,

perché mai esplori la tenebra dell’Ade caliginoso.

Dì: ‹‹(Son) figlio della Greve ed del Cielo stellato;

di sete son arso e vengo meno: ma datemi presto

da bere la fredda acqua che viene dal Lago di Mnemosine››.

Ed essi son misericordiosi per volere del sovrano degli Inferi,

e ti daranno da bere (l’acqua) del Lago di Mnemosine;

e tu quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui anche gli altri

mystai e bacchoi procedono gloriosi”.

(in G. PUGLIESE CARRATELLI, Le lamine d’oro orfiche, Adelphi, Milano 2001, pp.40-41).

 

“Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte,

e accanto ad essa eretto un bianco cipresso:

a questa fonte non avvicinarti neppure.

Ma ne troverai un’altra, la fredda acqua che scorre

dal lago di Mnemosine: vi stanno innanzi i custodi.

Dì: ‹‹Son figlia della Terra e del Cielo stellato:

urania è la mia stirpe, e ciò sapete anche voi.

Di sete son arsa e vengo meno: ma datemi presto

la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosine››.

Ed essi ti daranno da bere dalla fonte divina;

e dopo di allora con gli altri eroi sarai sovrana.

A Mnemosine è sacro questo (testo): (per il mystes), quando è sul punto di morire …

… la tenebra che tutt’intorno si stende”

(Op. cit., p. 68).

 

Di sete son arso e mi sento venir meno:

ma datemi da bere (l’acqua) della fonte che scorre perenne.

A destra (v’è) un bianco cipresso.

-Chi sei? Donde sei?- Son figlio della Terra

e del Cielo stellato;

sì, la mia preghiera è celeste”

(Op. cit., p. 94).

 

È ancora Pausania (Periéghēsis, IX, 39 § 3) ad attestare che a Livadia, sede del celebrato oracolo di Trofonio, appunto consacrato a Mnemosine, si facevano bere coloro che venivano a consultarlo prima all’acqua del Lete, e poi a quella della Dea, perché dapprima dimenticassero ogni pensiero estraneo, e poi conservassero il ricordo di quel che lì avevano visto e udito. Viene così stabilito un legame indissolubile fra le nozioni, apparentemente contrapposte, di ‘memoria’ e ‘oblio’ su cui vale la pena di soffermarsi.

Tale legame segna difatti un mutamento profondo circa la natura dell’aldilà (e, correlativamente, sul significato da dare all’“al di qua”).

Sappiamo infatti che originariamente per i Greci (come per gli Ebrei nella fase più arcaica della loro cultura), il mondo ultraterreno era contrassegnato da una sorta di “oblio” di quanto di più positivo vi era stato nella vita del defunto: non solo i suoi ricordi, ma anche il suo “vigore” fisio-psichico. I morti vivono una sorta di “vita vegetativa”, una specie di “esistenza dimezzata”, com’è bene attestato (ma non è certo l’unica testimonianza in tal senso) dal libro XI dell’Odissea. Ulisse deve preparare una sorta di “pozione” – fatta di latte, miele, sangue, acqua farina – bevendo la quale quel che rimane dei defunti può, per un breve tempo, uscire dal proprio stato di semiincoscienza e riacquisire la completezza delle proprie facoltà vitali; non solo, ma esplicitamente l’ombra di Achille rivela ad Ulisse che preferirebbe vivere l’esistenza di un bracciante sulla terra piuttosto che regnare sui morti (Odissea, XI, vv. 489-491).

Tale oblio è contrassegnato dall’acqua d’uno dei fiumi infernali, il Lete appunto.

Sotto il profilo etimologico, Lete rimanda a lanthánō, ‘sono nascosto’ e, nella forma media lanthánomai, ‘dimentico’.

La dimenticanza, unita al rimpianto, della vita contrassegna dunque originariamente il permanere dell’esistenza nel mondo ultraterreno.

 

Ma la correlazione di Mnemosine col Lete viene a modificare radicalmente il quadro originario.

Il morto – oppure quel “morto vivente” che è destinato a divenire l’iniziato – è coinvolto da una duplice “dimenticanza”. Da vivo, egli aveva dimenticato quel mondo ultraterreno dal quale proveniva. Da morto, deve dimenticarsi del mondo terrestre per riacquisire la conoscenza di quello stesso mondo originario. Questo secondo suo ‘dimenticare’ consiste in un vero e proprio “atto di dimenticanza” – una “cancellazione” – che permette di ricondursi al “vero”: non a caso ‘verità’ in Greco è a-létheia, dove l’alfa privativo iniziale indica il “discoprire” il “nascosto”, ossia ciò che già esisteva allo stato “latente”.

Una traccia viene cancellata e, come in un palinsesto, ne riaffiora un’altra.

A tal proposito Giorgio Colli, con la consueta acutezza, notò che Mnemosine è non soltanto ritorno all’origine e la possibilità di sottrarsi al ciclo delle rinascite, ma anche il rinvio a “una delle intuizioni arcaiche che stanno all’origine dell’intero pensiero presocratico”: quella per cui “il riconoscimento pessimistico dell’illusorietà del mondo che ci circonda trova un compenso teoretico nella sua interpretazione come traccia, riflesso, espressione, ricordo di un’anteriore vita divina, immutabile, sottratta al tempo, che Mnemosine ci fa recuperare” (G. COLLI, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977, I, p. 400). Il balenare di questa vita anteriore non nega e annulla pessimisticamente l’“arsura” della vita terrena, ma la soddisfa, la disseta: “Il tema dell’arsura […] presenta una certa analogia con la ‘volontà di vivere’ schopenhaueriana e con il karma (e il kama) indiano. Ma mentre Schopenhauer e il pensiero indiano credono di spegnere la sete dissolvendo l’arsura, la sapienza orfica placa l’arsura dissetandola con gelida acqua” (Op. cit., p. 401).

Perché, proprio grazie all’intervento di Mnemosine, il defunto-iniziato, tramite quel suo dimenticare, è richiamato pure a ricordare. Ricordare – giova ribadirlo – non ciò che egli è stato nella vita antecedente alla morte o all’iniziazione, ma ciò che egli è stato nella sua vita “originaria”, antecedente alla sua “caduta” nel mondo del divenire.

Per l’iniziato ai misteri di questa Memoria-Mnemosine che viene indotta in lui dall’oblio di ciò che è stato, tutti noi siamo stati come “gettati” in questo mondo transeunte (l’heideggeriana Geworfenheit) da un altro mondo, perfetto ed immutabile, al quale, in vita, inconsapevolmente desideriamo ritornare. “Esser gettati” significa “esser caduti”, e quindi “de-caduti” (caduti da …): perciò solo la morte, reale o metaforica che sia, a questa nostra vita quotidiana (di cui è bene si perda la memoria) è ciò che ci permette di ricongiungerci a quel mondo.

Non si tratta affatto di un’esperienza straordinaria.

Tutti abbiamo provato quell’emozione che chiamiamo “nostalgia”. Essa è (anche etimologicamente!) il “dolore per il (mancato) ritorno”. Ritorno ad uno “spazio-tempo” in cui abbiamo provato un’esperienza di felicità: il paese in cui siamo nati e cresciuti e che poi siamo stati costretti a lasciare, l’infanzia e l’adolescenza oppure – ed è il caso più frequente! – l’amore intenso per una persona assente eppure in noi sempre di nuovo presente: si pensi alle memorabili pagine di Proust in quella sezione della Recherche intitolata Un amore di Swann

In questi casi, l’immagine della felicità ci è continuamente davanti e dentro, tanto più intensamente vagheggiata quanto meno è raggiungibile. Ma (a meno che non abbia a sfociare in una nevrosi, sovente fonte di rancore nei confronti dell’oggetto del nostro desiderio …) presto ci rendiamo conto che quella felicità non consisteva in quel tempo, in quel luogo o in quella persona, ma a ciò a cui essi (certo, anche per le loro qualità, ma soprattutto per ciò che riuscivano a suscitare e ancora suscitano in noi, traendolo dal nostro profundum) in un certo qual modo rimandavano: una sorta di “Felicità” con la “F” maiuscola che, in una certa misura, permane in noi (e di cui serbiamo l’inconscia ‘memoria’). E che non può esserci venuta da questo modo, così carico di negatività.

A tal proposito, è stato detto assai felicemente: “Esiste in noi un singolare tipo di memoria, una sorta di memoria immemorabile – e per questo mai intenzionale – di felicità. È una memoria non collegata a un momento ben definito nel tempo – l’anno scorso, ieri oppure un’ora fa -, ma fuori del tempo, sospesa: un luogo di soddisfazione e di pienezza dove siamo stati non si sa come e perché, ma che abbiamo in un tempo (quale?) abitato. E poiché questo luogo è senza tempo, è come se da esso fossimo usciti senza averlo mai abbandonato” (S. NATOLI, La felicità di questa vita. Esperienza del mondo e stagioni dell’esistenza, Mondadori, Milano2001, p. 87).

 

In tale concezione affonda le proprie radici l’idea platonica di “verità” (com’è ad esempio esposta nella Repubblica, nel Fedro e nel Menone), per la quale “sapere” altro non è che “rammemorare” quello che già si sa senza sapere di saperlo.

Platone fu un critico dell’orfismo (o, almeno, d’un certo modo di intenderlo), soprattutto a motivo del suo carattere “magico” (Repubblica, II, 364). Le pratiche iniziatiche correnti al tempo suo difatti richiedevano, per essere efficaci, un’esatta riproduzione delle parole e dei gesti in cui il rito iniziatico consisteva: parole e gesti la cui efficacia finiva così per essere indipendente dallo stato psicologico – e, soprattutto, dall’atteggiamento etico – dell’iniziando, che è invece, per Platone, assolutamente essenziale.

Per inciso, la critica platonica all’orfismo getta anzi i presupposti per distinguere fra la ‘magia’ e il ‘miracolo’: la prima opera, per così dire, “automaticamente” (per questo è un’antenata della tecnica), mentre il secondo richiede, per operarsi, l’adesione di fede del destinatario della sua azione. Se vogliamo trovare un esempio più “quotidiano” di tale concezione, possiamo fare riferimento a come vengono in concreto declinate (a prescindere dai seri fondamenti teorici di molte di loro) certe “pratiche” di “terapia dell’anima” oggi assai in voga, le quali invitano ad operare su noi stessi, per sfuggire allo stress che sempre più ci viene imposto dalla civiltà contemporanea, una sorta di “pausa cognitiva”. Tramite particolari “tecniche di meditazione” (controllo del respiro, esercizi yoga, arte terapia, autoriflessione ecc.), si dovrebbe riuscire ad operare una sorta di “spersonalizzazione di sé” e a raggiungere la consapevolezza della sostanziale irrilevanza del nostro “io” individuale (e conseguentemente dei suoi “problemi”, quasi solo da questi ultimi esso fosse costituito …).

Ma, per tornare al discorso principale, preso atto delle riserve di Platone su un certo modo di intendere l’orfismo, non può certo negarsi che la sua dottrina delle idee (oltre che dell’anima) a quest’ultimo debba molto.

 

È interessante vedere come Platone perviene a concepire la “vera conoscenza” (epistémē) come frutto di ‘memoria’ (anámnēsis).

Tutto parte da un singolare paradosso, elegantemente illustrato da Socrate nel dialogo Menone: “Vedi un po’ che bell’argomento eristico …! L’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché, conoscendolo, non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa, perché non sa neppure che cosa cerca” (Menone, 80 e). Se si cerca qualche cosa, insomma, lo si conosce già e, se non lo si conosce … non si sa che cosa cercare!

Platone esce dall’impasse proprio facendo ricorso alla dottrina dell’anámnēsis, a sua volta ricondotta a quella orfica dell’immortalità dell’anima: “… l’anima umana è immortale, e … ora essa ha un suo compimento – il che si dice morire -, ora rinasce, ma … mai essa va distrutta […] L’anima dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza” (Menone, 81 b-d).

La spiegazione platonica è interessante, poiché si traduce in una sorta di “postulato della ragione teoretica”.

Egli cioè non parte dal presupposto che l’anima sia immortale, per poi dedurne che sapere è ricordare. Fa l’esatto contrario. Poiché nell’uomo vi è desiderio di conoscere, e poiché tale desiderio deve avere una spiegazione razionale la quale sfugga all’“argomento erisitico” prima enunciato, si deve presupporre che, in qualche modo, l’anima “già abbia conosciuto”, in un’altra dimensione, ciò che in questo modo va ricercando: perciò essa non può non essere immortale!

E del fatto che conoscere è solo “aver memoria” di ciò che s’è già appreso Socrate darà immediatamente dopo prova facendo effettuare alcune dimostrazioni geometriche ad uno schiavo assolutamente digiuno di geometria (Menone, 82 c-85 b).

Se si esamina attentamente quel celeberrimo passo (troppo lungo per essere qui riprodotto per intero), constatiamo, però, che lo schiavo non “ricorda” in realtà un bel niente di contenutistico. Semplicemente, guidato da Socrate che gli fa le domande opportune, egli risolve i problemi che gli vengono sottoposti facendo ricorso ad una serie di “prerequisiti” concettuali: nozioni elementari come “uguale”, “maggiore”, “minore”, “doppio”, “metà”, “lunghezza” ecc. Tutte nozioni che ben potrebbe lo schiavo avere appreso non da un pregresso soggiorno della sua anima nell’Iperuranio ma, più semplicemente, tramite la “costruzione” del mondo a poco a poco verificatisi nel corso della sua esperienza di vita secondo quei meccanismi che, nel corso del Novecento, ci sono stati così bene spiegati sia dalla fenomenologia sia dalla psicologia genetica.

Ma Platone rifiuterebbe questa impostazione. Replicherebbe che anche le nozioni elementari utilizzate dallo schiavo provengono da un’esperienza prenatale pregressa.

Da questo punto di vista, la posizione “oggettivistica” di Platone potrebbe racchiudere in sé (come spesso accadde a quel Grande …) un’intuizione geniale: cioè che all’atto della nascita la mente umana sia, per dire così, “totipotente” (che quindi, in un certo senso, potenzialmente sappia già tutto), e che poi l’esperienza della vita riduca tale gamma di possibilità. Le ricerche neurologiche sembrano confermarlo: “gli studi sui suoni emessi dai neonati della nostra specie … hanno dimostrato che nelle prime settimane di vita un neonato è in grado di emettere praticamente tutti i suoni di ogni lingua conosciuta. Mano a mano che cresce, egli perde la capacità di emettere quasi tutti i suoni, tranne quelli che fanno parte della propria lingua. In sostanza, alla nascita ogni neonato è dotato di una enorme potenzialità vocale (e quindi linguistica). Tutte le potenzialità non esercitate vengono perse per selezione da non uso” (P. CALISSANO, Neuroni. Mente ed evoluzione, Garzanti, Milano 1992, p. 178).

Ad ogni modo, non possiamo chiedere a Platone di essere Kant. Per il miglior allievo di Socrate, ogni conoscenza non può non avere un “corrispettivo” nella realtà, secondo quella definizione di conoscenza enunciata a titolo di ipotesi nel dialogo Teeteto, ma destinata a diventar canonica nella storia della filosofia: “conoscenza è la opinione vera accompagnata da ragione; e … opinione senza ragione è al di fuori della conoscenza: … quindi le cose di cui non si dà ragione non sono conoscibili …, … quelle di cui si dà ragione, conoscibili” (Teeteto, 201, e-d).

Non tutte le opinioni, insomma, son da considerarsi vera conoscenza, neppure quelle che hanno un riscontro nella realtà dell’esperienza. Di tale riscontro, occorre sia possibile darsi “ragione”. La corrispondenza al vero non può essere il frutto di un incontro casuale fra il pensiero e le cose! Perciò gli Scolastici scultoreamente diranno che scire è solo per causas. Cause che non possono non godere di un particolare statuto ontologico.

 

L’anámnēsis platonica – al pari dell’orfica Memoria-Mnemosine – è insomma ciò che ci fa ricordare non il “nostro” personale “passato” di questa nostra vita quanto, piuttosto “ciò che da sempre è stato, è e sarà” per tutti: anzi il “dimenticarci di noi stessi”, di ciò che siamo stati nella nostra vita “quaggiù”, è una sorta di “precondizione” per accedere al mondo dell’immutabile ed eterna verità-álētheia. Una verità-álētheia la quale, proprio perché eterna ed immutabile, è capace di conferire senso, ricomponendolo, all’altrimenti caotico ed incomprensibile mondo del divenire – gravido di idee confuse, di passioni scomposte, di desideri inconfessabili – in cui siamo costantemente immersi durante la nostra vita terrena: quel mondo che, a ben guardare, era proprio quello che Achille rimpiangeva nell’Ade (ricomposizione a cui, come vedremo al § 7, il Cristianesimo darà una soluzione diversa, proprio tramite una diversa configurazione di ‘memoria’).

L’anámnēsis platonica, figlia di Mnemosine in versione orfica, finisce così per svolgere la medesima funzione che questa, come “madre delle Muse” guidate da Apollo, aveva svolto nella “cultura dell’oralità”.

 

Con una differenza: che si tratta d’una memoria fuori dal tempo.

 

Tutto il contrario, ad esempio, della funzione svolta dalla memoria nella psicanalisi (non a caso concepita da un Ebreo sì ateo, ma permeato della religiosità di quel gran popolo). Chi vi si accosta è, di solito, affetto da una nevrosi, consistente nel desiderio di un “oggetto” irraggiungibile – e spesso desiderato proprio per la sua inattingibilità – la cui assenza, accompagnata dal continuo desiderare, costituisce per lui una fonte di dolore. La terapia analitica lo invita a “rimemorare” la sua “storia” – cioè proprio quel caotico mondo del divenire da cui il platonismo lo invita invece a distaccarsi – al fine di fare affiorare, per dir così, le motivazioni inconsce che lo hanno condotto alla nevrosi. Tale affioramento, determinato dalla memoria, dovrebbe condurre il paziente a comprendere le ragioni del suo desiderio e a determinare in lui una sorta di coscienza del proprio limite, da vivere non come una sconfitta, ma come l’acquisizione d’una “giusta misura” (come direbbe Aristotele) di sé.

L’amore di Platone per la chiarezza solare – quindi apollinea – delle idee (pure costantemente accompagnata dall’avvertenza di quanto di oscuro si nasconde in ogni uomo …) e la sua nozione di ‘memoria’ come strumento per “svelare” una immutabile ed eterna verità atemporale – e come tale garanzia della fondamentale coerenza della nostra transeunte realtà diveniente – furono probabilmente le principali cause per cui la psicanalisi non nacque sotto il cielo dell’Attica nel IV secolo avanti Cristo: cause che influirono grandemente su tutta la riflessione filosofica successiva.

 

Soprattutto per il tramite del Neoplatonismo, Platone – a volte presentato come una sorta di “pagano profeta di Cristo” – involontariamente pose una pesante ipoteca proprio sulla concezione cristiana del mondo, sino (lo diciamo non senza timore e tremore) a modificarne in parte la natura originaria.

L’Antico e il Nuovo Testamento, se letti senza gli “occhiali” neoplatonici di cui in particolare si munì Sant’Agostino, in realtà propongono di ‘memoria’ una nozione radicalmente alternativa a quella greca.

Raimondo Fassa