La Memoria: 2° parte

La memoria dei Greci: A) ‘Mnemosine’, “madre delle Muse”

Il nostro “viaggio nella memoria” inizia al Museo archeologico Hatay, in Turchia, sito ad Hatay-Antakya (l’Antiochia di un tempo), il quale ospita una fra le più ricche collezioni di mosaici pervenuteci dal mondo antico. Mosaici importanti non solo e non tanto per il loro valore “artistico”, ma anche e soprattutto perché indicatori d’una cultura e d’una mentalità: non dobbiamo infatti dimenticare che essi furono concepiti più come “tappeti di pietra” che come veri e propri oggetti d’arte. Tramite loro veniamo infatti a conoscere i più importanti elementi dell’“immaginario collettivo” di quell’epoca: animali esotici, divinità marine, ideali di bellezza e strumenti di salvezza, tra cui riti misterici in cui fa bella mostra di sé, appunto, anche la Memoria, nelle sembianze dell’omonima dea Mnemosine (Mnēmosýnē).

 

Quando approda a campeggiare in quel mosaico, Mnemosine si trova al termine di un lungo cammino, il quale è venuto a poco a poco modificandone struttura e funzione, e che vale pertanto la pena, sia pure per sommi capi, di ricostruire.

Il nome proprio Mnēmosýnē è innanzitutto anche un nome comune, ed è solo uno dei tanti coi quali, in Greco antico, si rendeva l’idea di ‘memoria’. Esso viene da mnémē (sui cui fondamenti etimologici diremo oltre, al § 5), con l’addizione del suffisso sýnē. Quest’ultimo ha una funzione, quando si ha a che fare con i concetti, “personalizzante” e, contestualmente, “astrattivizzante”. La mnēmosýnē è, insomma, la Memoria per eccellenza (come ad esempio dikaiosýnē è, da díkē, per eccellenza la Giustizia).

 

All’origine d’ogni esperienza umana risiede un mito.

Mnemosine-Memoria è una dea ctonia: figlia com’è di Urano, ‘Cielo’, e Gea, ‘Terra’, essa è una titanide. Appartiene cioè a quelle divinità preolimpiche secondo l’opinione prevalente (anche se non da tutti condivisa) proprie delle più antiche popolazioni greche, antecedenti all’invasione degli Achei e dei Dori, come tale capace di esprimere una cultura e una mentalità più arcaiche, e quindi più profonde: quell’originale ed originario che costituisce il fondamento d’ogni “archetipo”: il quale – lo dice la parola stessa – innanzitutto è un’arché.

Ce lo confermano i miti che la riguardano.

Innanzitutto, in quanto sorella di titani, Mnemosine è amica degli uomini, afflitti dall’“invidia degli dei” olimpici (a cui i titani sono strutturalmente avversi). Nonostante ciò, secondo la versione esiodea, ella fu amata da Zeus: “Poscia s’innamorò di Mnemòsine bellacesarie, / e nacquero da lei le Muse dagli aurei seri, / nove, a cui grate sono le feste e le gioie del canto” (Teogonia, vv. 916-917).

Per comprendere compiutamente il senso di questo racconto, occorre riferirci anche a due altre testimonianze le quali, benché più tarde, probabilmente rinviano ad origini anche più antiche: Pausania (Elládos periéghēsis, IX, 29 § 1) riferisce che le figlie di Zeus e Mnemosine furono non nove, ma solo tre: Melete, Mneme e Aoide.

Diodoro Siculo (Bibliotheca historica, V, 67, § 3) aggiunge poi che Mnemosine aveva scoperto il “potere della memoria” e che aveva assegnato i nomi a molti oggetti e cose astratte che servivano a intendersi durante la conversazione.

 

Il senso di queste narrazioni è interessante.

Mnemosine è “madre delle Muse”, poiché è il tratto caratterizzante della cosiddetta “cultura dell’oralità”. Sia detto per inciso che il termine, benché ormai entrato nell’uso, non sembra del tutto perspicuo, poiché fondato sulla contrapposizione fra oralità e scrittura, cioè tra forme di comunicazione tutt’e due esclusivamente “verbali”: per le ragioni che vedremo subito, meglio sarebbe parlare di cultura “verbo-motoria”.

In un mondo senza scrittura, o dove l’uso di questa è ridottissimo, non esistono nette distinzioni fra scienza, tecnica e arte. Queste ultime risalgono, appunto, al momento in cui la scrittura diventerà lo strumento-principe dell’immagazzinamento e della trasmissione dell’informazione. Prima della scrittura, il patrimonio di conoscenze, usi, costumi, normative e tradizioni di un popolo non può esprimersi che attraverso le “pratiche narrative” della poesia, del canto e della danza, strettamente associate alla memoria.

Lo constatiamo ancora oggi in ambiti oramai divenuti marginali, ma non per questo meno significativi. Pensiamo a certe culture ancora a volte erroneamente ritenute “primitive”: nell’Africa sub sahariana esiste ancora oggi (benché in via di estinzione …) la figura del griot, una sorta di poeta itinerante (molto simile al rapsodo omerico), che va di villaggio in villaggio e di corte in corte recitandovi, per parecchie sere consecutive, poemi di migliaia e migliaia di versi che racchiudono tutto il patrimonio culturale di quei popoli.

Lo vediamo anche in un’altra forma di (apparente) “primitività”: i giochi dei bambini (almeno, di quelli di un tempo ancora recente …), basati su filastrocche, ninne nanne, lallazioni, girotondi … una serie di riti schematici facilmente memorizzabili dove si combinano canto, musica, movimento, ritmo, in un’iterazione che consente di “fissare”, per dir così, regole di comportamento sociale e di rapporto fra l’‘io’ dell’infanzia ed il ‘mondo’. E dove, proprio per l’assenza della mediazione scrittoria, una vera distinzione fra ‘io’ e ‘mondo’ neppure c’è.

Ed è appena il caso di ricordare che i poemi omerici furono messi per iscritto solo all’epoca di Pisistrato, dopo essere stati tramandati oralmente per non meno di tre secoli da una corporazione di aedi, probabilmente noti come “gli uomini di Omero”. Non solo, ma i “piedi” del verso antico furon detti così dai danzatori che, coi loro movimenti, li scandivano e che, proprio per il tramite di quei loro passi – come al massimo livello avveniva nella tragedia attica – “ricomponevano” visivamente una realtà altrimenti destinata a rimanere caotica, e perciò incomprensibile (particolare, questo, ancora più presente nei Salmi ebraici, dove il rapporto fra parola e danza è addirittura invertito: mentre nel mondo greco la danza segue i ritmi della metrica poetica, in quella ebraica è la metrica verbale a parametrarsi sui passi della danza …).

Ecco il senso della testimonianza di Pausania prima richiamata, quando racconta che le figlie di Memoria-Mnemosine e di Zeus erano tre: Melete, Mneme e Aoide. Non dobbiamo dimenticare che quei tre nomi in Greco significano, rispettivamente, ‘Pratica’, ‘Ricordo’ e ‘Canto’: appunto tre strumenti di ausilio della memoria, di fissazione della sua “traccia”, che giustificano pure l’affermazione di Diodoro su Mnemosine come scopritrice del “potere della memoria”.

 

Richiamarsi al significato di quei tre nomi propri è estremamente importante, per il fatto che noi non siamo grecofoni di mother tongue, e che pochi di noi hanno studiato il Greco antico. Per i Greci di allora, il nome proprio evocava direttamente la “cosa” senza alcun bisogno di ulteriore spiegazione: se qualcuno ad esempio si chiamava ‘Eugenio’ o ‘Callisto’, era implicitamente percepibile il rispettivo significato di quei nomi: ‘Bennato’ e ‘Bellissimo’, più o meno come succede anche a noi oggi quando ci imbattiamo in chi si chiami ‘Bruno’, ‘Celeste’, ‘Margherita’ o ‘Rosa’.

Ed è quello che avviene coi nomi delle nove Muse, secondo l’altra tradizione anch’esse figlie di Mnemosine e di Zeus: Calliope (Bellavoce), Clio (Celebratrice), Erato (Fascinosa), Euterpe (Dilettosa), Melpomene (Cantatrice), Polimnia (Dai-molti-inni), Talia (Lussureggiante), Tersicore (Piacere-Danzante), Urania (Celeste). Tutti nomi designanti pratiche e/o qualità “verbo-motorie” riconducibili a ‘memoria’ quale strumento-principe di organizzazione dell’esperienza e di trasmissione dell’informazione nella cosiddetta “cultura dell’oralità”.

Proprio questa duplice funzione (organizzare l’esperienza e trasmetterne la “traccia”) giustifica il tradizionale accostamento delle Muse ad Apollo, uno dei cui attributi non a caso è “Musagete” (“duce delle Muse”). A prescindere dalla fondatezza filologica della nietzscheana distinzione fra ‘apollineo’ e ‘dionisiaco’, è infatti indubbio che Apollo abbia idealmente rappresentato nella tradizione tutta una serie di concetti che logicamente discendono da una simile mozione di ‘Memoria’. Apollo infatti è un dio rassicurante, in quanto catalizzatore, organizzatore e ricompositore della pluralità dell’esperienza. Divinità solare, e quindi della luce, proprio perché illumina e chiarisce Apollo è protettore, vindice, risanatore dei mali, vivificatore delle messi e dei frutti, e – ultimo ma non da ultimo – patrono della scienza e del canto.

Scienza-e-canto che – giova ribadirlo – nella cultura “verbo-motoria” sono non separati, ma connessi.

La loro scissione – e il conseguente confinamento dell’arte nel mondo dell’“estetico” – avviene successivamente, e proprio in seguito all’avvento della scrittura come sostitutiva della ‘memoria’. Nella cultura “verbo-motoria”, infatti, il “messaggio” non è concepibile senza il “messaggero”.

Ciò comporta almeno tre conseguenze, di notevole portata concettuale, che differenziano profondamente quello che potremmo chiamare il “mondo della memoria” da quello nostro:

la prima, che sembra un’ovvietà, è che, nella cultura orale, a differenza di quanto avviene in quella scritta, il messaggero non può ignorare il contenuto del messaggio, che anzi deve conoscere “a memoria” (si pensi al caso-limite del latore in una lettera in cui il mittente dica al destinatario … di uccidere il latore stesso!);

la seconda è che, proprio per questo, il memorizzare tramite parola e gesto implica una minore distanza (come prima s’è visto nel caso dei giochi infantili) fra l’‘io’ e il ‘mondo’: fra i due termini sussiste una sorta di continuum che il documento scritto interrompe creando, per dir così, il “soggetto” e l’“oggetto”. Nel “mondo della memoria” questo non accade: l’“ego” è assai meno concentrato su se stesso, e assai più aperto al mondo e vi è anzi una sorta di continuità, e non una scissione, fra i due poli;

tale contrapposizione deriva dalla terza conseguenza: la fissazione nel documento (traccia scritta al posto di traccia mnemonica) comporta infatti un’oggettivazione del discorso, il quale acquista una propria autonomia e una diversa modalità di strutturazione. Lo strumento mnemonico procede per “accostamenti”, quello scritto per “inferenze”: lo sviluppo della logica e della matematica, ad esempio, sarebbe stato pressoché impossibile – o quanto meno difficilissimo – in assenza della scrittura.

 

Di tali conseguenze si rese benissimo conto Platone, il quale rappresenta il punto terminale del passaggio della “cultura verbo-motoria” – figlia di Memoria-Mnemosine – al sapere fondato sulla scrittura.

Nel Fedro (forse il suo dialogo più attuale, tanto da essere rievocato da Thomas Mann verso la fine della Morte a Venezia), narrando il mito sulla nascita della scrittura, proprio lui – che fu il più prolifico scrittore del suo tempo – lamenta la perdita del discorso orale: l’alfabeto “ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: … non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente” (Fedro 275 a).

Una simile obiezione presuppone, in realtà, avvenuta la piena affermazione della scrittura sull’oralità. Quella del dialogo platonico è difatti un’oralità più apparente che reale: la lunghezza delle catene argomentative, e le distinzioni di cui sono intessute, lo rendono pressoché impossibile (o, quanto meno, incredibile …) senza la mediazione d’uno scritto.

Platone, in effetti, utilizza l’oralità – per giunta fittizia – dei suoi Dialoghi non ai fini della memorizzazione propria della poesia, ma per spezzarne l’incanto: non a caso, in un dialogo platonico minore, intitolato Ione, Socrate polemizza con un rapsodo di questo nome “dimostrandogli” l’impossibilità di trasmettere il sapere per il tramite della poesia.

In verità gli argomenti messi in campo da Socrate sono abbastanza speciosi: egli ad esempio (Ione, 541 b, oltre che Repubblica, 600 a) contesta che, tramite la trasmissione orale dei poemi omerici, si possa (come invece si riteneva nell’ambito della tradizionale cultura verbo-motoria) imparare a governare la città o a condurre gli uomini in battaglia … sulla base del fatto che gli aedi, per quanto stimati, non vengono chiamati a fare questo!

Per la verità, nemmeno ai filosofi e agli scienziati capita spesso d’esser chiamati a governare gli uomini: e, nelle rare volte in cui lo sono stati (si pensi ai modesti risultati dei cosiddetti “governi dei tecnici” …), non si può dire certo che abbiano brillato.

 

Ma il senso complessivo del discorso socratico-platonico è abbastanza chiaro: in un mondo dove (per parafrasare un famoso libro di Havelock) “la Musa, figlia di Memoria, ha imparato a scrivere”, la poesia è ridotta a un fatto (per usare la terminologia di oggi) puramente estetico, e non è più uno strumento di integrazione d’una serie di attività umane: la sua creazione ed interpretazione è frutto di una divina manía scevra da qualsivoglia razionalità (Ione 533 d-536 d). Quest’ultima è invece pertinenza della dialettica che, per le ragioni prima viste, presuppone di fatto l’esistenza della scrittura.

Raimondo Fassa