Emilia contro Romagna

‘Emilia contro Romagna’ è il titolo del libro che l’amica Paola Balducchi offre ai suoi lettori, appassionati ‘curiosi’ di gastronomia. Esso illustra, nelle tre parole da cui è composto, una dicotomia – quella tra le due regioni – che delineare in una breve introduzione risulta compito alquanto arduo.

Se, infatti, Emilia e Romagna sono oggi legate da ragioni prevalentemente amministrative e politiche (la Regione è stata costituita ufficialmente nel 1970), la ricostruzione delle tradizioni che hanno contraddistinto nei secoli queste due aree della Penisola deve tenere conto di innumerevoli aspetti.

Forse, ma si tratta solo di una suggestione, il tentativo di conciliare queste due aree geografiche potrebbe corrispondere al tentativo sempre attuale, ma difficilmente realizzabile, di coniugare nell’uomo Cuore e Ragione, laddove il primo potrebbe essere rappresentato dalla Romagna e la seconda dall’Emilia.

Ma è chiaro che per quanto interessante possa essere questa considerazione, si tratta pur sempre di una suggestiva ipotesi.

Come è noto, fino al I secolo d. C. quest’ampia area geografica era conosciuta con il nome di Aemilia, VIII regione della divisione augustea dell’Italia, i cui principali centri erano Ariminum (Rimini), Caesena, Forum Populii (Forlimpopoli), Forum Livii (Forlì), Faventia (Faenza), Forum Cornelii (Imola), Bononia (Bologna), Mutina (Modena), Regium Lepidum (Reggio Emilia), Parma e Ravenna.

Fu in seguito alle invasioni barbariche (Longobardi) che in questa regione iniziarono a delinearsi due blocchi, mai del tutto omogenei al loro interno: la parte occidentale dell’area, infatti, venne incorporata nel Regno longobardo che aveva la sua capitale a Pavia; di contro, a est, si venne a formare il centro di dominio dell’Impero romano d’oriente, che assunse il nome di Romània e che indicava la regione dell’Esarcato.

La linea di confine tra queste due aree era costituita dal fiume Panaro.

Lungo l’arco del Medioevo, è possibile cogliere una diversità nello sviluppo di queste due entità territoriali.

Se durante l’età comunale Modena, Reggio e Parma si divisero in maniera alterna nel supportare Papato e Impero, la Romagna nel passaggio dai comuni alle signorie si caratterizzò per una forte animosità, come, del resto, ricorda Dante nella Commedia: “Romagna tua non è, e non fu mai | sanza guerra né cuor de’ suoi tiranni; | ma ‘n palese nessuna or vi lasciai” (Inferno, XVII, 37-39). Le continue lotte intestine avevano, infatti, indebolito gli organi comunali preparando così il terreno per l’instaurarsi dei governi personali, in mano a famiglie di origine aristocratica.

E però, se in Romagna si erano andate formando solide signorie – gli Ordelaffi a Forlì, i Malatesta a Rimini, i Da Polenta a Faenza, i Manfredi a Faenza, gli Alidosi a Imola –, in Emilia non se ne erano create di stabili e vitali, sicché la Regione finì con l’essere divisa tra due signorie forestiere: gli Estensi di Ferrara a Modena e Reggio e i Visconti a Parma e Piacenza.

Queste ultime due città, prima legate al ducato di Milano, passarono in seguito alla Chiesa, venendo infine assegnate da papa Paolo III al figlio Pier Luigi Farnese nel 1545.

D’altra parte, Roma avrebbe esteso i suoi poteri anche in Romagna – territorio che già dal secolo VIII faceva parte della Chiesa, giacché il re dei Franchi Pipino l’aveva donata a papa Stefano II – allorquando nel 1500 il duca Valentino condusse l’intera area sotto il dominio della Città eterna con la costituzione del ducato di Romagna.

Ma in seguito alla sua morte, tali terre divennero preda delle principali realtà politiche del tempo fino al 1559 quando, con gli accordi della pace di Cateau-Cambrésis, l’Emilia venne divisa tra la famiglia Farnese (duchi di Parma e Piacenza) e gli Estensi (duchi di Ferrara, Modena e Reggio), mentre la Romagna ritornò sotto lo Stato pontificio; assetto, questo, che durò per circa tre secoli.

Nel XVIII secolo si assisté all’estinzione delle famiglie dei Farnese e degli Estensi e all’arrivo del ramo cadetto dei Borboni di Spagna a Parma e Piacenza, mentre a Modena successe la dinastia d’Austria-Este.

Tuttavia, con l’avvento dei Francesi, il Ducato dell’Emilia occidentale venne unito alla Francia, mentre le restanti città della parte centrale della Regione vissero le vicende della Repubblica Cispadana e del regno d’Italia.

Questo intermezzo politico si concluse con la caduta di Napoleone, che a sua volta comportò il ritorno di Parma e Piacenza sotto il dominio spagnolo, mentre Modena e Reggio subirono la politica reazionaria di Francesco IV d’Austria-Este (1814-46) e poi del figlio Francesco V (1846-59).

Fu infine nel 1860 che tutta l’Emilia venne annessa al regno d’Italia.

In Romagna, invece, nonostante papa Giulio II fosse riuscito a sottomettere l’intera area, i centri urbani non ebbero mai pace, giacché, non disponendo il papato di forza militare, vi prevalsero le fazioni dei nobili.

Cessate le lotte interne, la Chiesa fu costretta a cedere nel 1796 la Romagna ai Francesi che la unirono alla Cispadana e alla Cisalpina. E però, caduto Napoleone, fu nuovamente il governo pontificio a esercitare il proprio dominio sulla Regione, costituendo le tre legazioni di Romagna, divenute in seguito quattro (Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna).

Ma questa terra, centro di sette e di congiure contro il malgoverno papale, insorse nel 1831, nel 1843 e nel 1845, aderendo infine alla Repubblica romana, venendo tuttavia occupata nel maggio 1849 dagli Austriaci, che vi rimasero fino al giugno 1859.

La sconfitta dell’Austria segnò però la fine del governo pontificio e soprattutto l’annessione, tramite plebiscito, della Romagna al regno d’Italia, nel 1860.

 

“Quando incontrate la cucina emiliana, fate una riverenza, perché se la merita” sono le parole scelte da Pellegrino Artusi per presentare la grande tradizione gastronomica di questo territorio.

Una cucina ricca e sostanziosa quella emiliana, carica di sapori sapientemente scelti, che ha ereditato questi caratteri dalla tradizione del ‘500-‘600, grazie alla quale Bologna ricevette l’appellativo di ‘grassa’.

Presso le corti emiliane, infatti, diversi furono i cuochi che esercitarono l’arte culinaria: Giovan Battista Rossetti e Cristoforo di Messisbugo a Ferrara – quest’ultimo autore della ricetta ‘torta d’erbe alla ferrarese’ –,Vincenzo Cervio a Parma, Giulio Cesare Tirelli e Bartolomeo Stefani a Bologna.

Questa concentrazione di grandi cuochi in Emilia portò allo sviluppo di una tradizione gastronomica che, seppur differente tra le varie città emiliane, si sarebbe contrapposta alla ‘scuola romana’, emanazione culinaria del potente Stato pontificio.

Principe, forse, degli alimenti che caratterizzarono questa cucina (e che la contraddistinguono tuttora) fu la carne di maiale, il cui utilizzo è attestato da fonti documentari e materiali, come il mosaico nell’abbazia di Bobbio, nel piacentino, dove è raffigurata l’uccisione dell’animale.

Secondo una leggenda, invece, fu a Mirandola che vennero inventati sia il cotechino, sia lo zampone, giacché durante un assedio da parte delle milizie di Giulio II, nel 1511, i mirandolesi, di fronte alla scarsità di vettovaglie, si sarebbero industriati nell’utilizzare anche le parti del maiale fino all’ora tralasciate, insaccando la carne nella cotenna per il cotechino, e in seguito nelle zampe, creando lo zampone.

Di necessità, pertanto, si fece virtù, sicché la cucina emiliana risulta oggi abbondante ed elaborata, realizzata per offrire anche piacere visivo, oltreché olfattivo e gustativo, ma forse anche uditivo, giacché il rumore delle porte degli opulenti negozi di gastronomia che si possono incontrare nelle varie città emiliane e che rendono il cliente memore di una tradizione secolare, pare talvolta inconfondibile.

Ma che dire, invece, della tradizione gastronomica della Romagna? Per anni, in essa, ha dominato la figura della Azdora (da non confondere con il corrispettivo emiliano Rezdora), regina del focolare romagnolo che seppur di stampo patriarcale aveva in questa figura femminile il centro della famiglia, giacché custodiva e tramandava quel ricco patrimonio culturale della tradizione contadina.

Ricca di piatti e ricette derivanti da antiche tradizioni contadine, la cucina di questo territorio può essere suddivisa in tre settori: quello marino (data la sua vicinanza con il mare), quello delle campagne con una fiorente agricoltura e quello ricco di carni che conserva lontani ricordi risalenti al tempo del dominio bizantino e delle signorie.

Tutto sommato, i romagnoli furono sempre grandi cultori della cucina, benché negli antichi ricettari il cibo di questa terra quasi non compaia.

Rispetto alla tradizione emiliana, infatti, mancarono in parte i grandi cuochi allevati e supportati dalle grandi famiglie nobili, soffocate dalla dominazione dello Stato pontificio.

Fu forse per questa forte influenza del papato che venne dato il nome ‘strozzapreti’ a una tipologia di pasta, preparata con farina, acqua e sale, così da manifestare con l’ironia tipica dei Romagnoli l’insofferenza nei confronti della subordinazione al potere ecclesiastico.

E però, pur ‘carente’ di cuochi, fu in questa regione che nacque, nella città di Forlimpopoli, uno dei più celebri scrittori, gastronomi e critici letterari italiani, Pellegrino Artusi, autore del manuale La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene e che seppe delineare le tipicità gastronomiche che gli uomini di questa area territoriale (insieme a quella emiliana) produssero.

In fin dei conti, ha ragione Massimo Montanari, quando afferma che “il tipico è qualcosa che non nasce dal territorio, perché un territorio non produce nulla di tipico, sono gli uomini a produrre il tipico”.

Lorenzo Bellei Mussini