Muti suggeritori di messaggi celati

Il Sacro Bosco di Bomarzo come percorso di congiunzione tra microcosmo e macrocosmo

Un giardino insolito, eccezionale, circonfuso di magia e mistero dove il visitatore può perdersi per poi ritrovarsi.

Tutto questo è il Sacro Bosco di Bomarzo, nella Tuscia viterbese, complesso monumentale ideato nel 1552 dal principe Pierfrancesco Orsini.

Un itinerario fortemente voluto dal proprio artefice e che esprime un’idea archetipica universale: il percorso umano nel faticoso e contorto commino di conoscenza dell’uomo e del mondo.

Articolato sui suoi tre livelli, il Sacro Bosco nella sua unicità rappresenta pertanto un mettersi alla prova, un recuperare frammenti di vita altrimenti perduti, ma soprattutto una gestazione introspettiva o, per dirla con Proust, “andare alla ricerca della propria anima” per puntare al futuro con cuore antico.

Su una delle numerose alture tufacee che caratterizzano quell’area del Lazio settentrionale, nota come Tuscia viterbese, sorge il piccolo comune di Bomarzo che, ancorché dall’apparenza modesta e dismessa, vanta un complesso monumentale unico al mondo: il Sacro Bosco, ormai – a torto – conosciuto come ‘Parco dei Mostri’, labirinto simbolico e percorso iniziatico che fu, peraltro, fonte d’ispirazione per numerosi artisti, tra i quali Salvador Dalì e Michelangelo Antonioni.

Ideato nel 1552 dal principe Pierfrancesco Orsini, detto Vicino – uomo d’arme, erudito umanista e poeta –, e dedicato alla defunta consorte Giulia Farnese, il progetto venne portato avanti grazie alla valente esperienza dell’architetto Pirro Ligorio, per quattro anni successore di Michelangelo nella direzione dei lavori della basilica di San Pietro.

Come anticipato, il nome conferito a questo insieme di sculture rimanda non già alla mostruosità delle figure che lo caratterizzano, quanto alla magia e, soprattutto, alla sacralità del luogo, deducibile sin dall’ingresso, dove due sfingi – associate all’enigma e all’ineffabile – si pongono come guardiane del giardino.

Una volta oltrepassata la soglia, il visitatore si trova infatti immerso in una nuova realtà, dove gli animali e le figure in pietra che popolano questa selva e che emergono all’improvviso dal folto della vegetazione si presentano come muti suggeritori di messaggi celati.

Ma come si snoda questo percorso e quali potrebbero essere i significati delle figure in pietra che lo compongono?

A sostengo del visitatore giunge in aiuto lo stesso principe Orsini, il quale decise di far incidere sulle sculture alcune iscrizioni come supporto per coloro che avrebbero visitato il Sacro Bosco.

È attraverso esse, infatti, che è possibile intuire che non ci si trova d’innanzi al classico giardino costruito per rompere il tedio di chi lo percorre, ma di un luogo che, per svelare il proprio messaggio, richiede un impegno preciso della mente, come suggerisce l’iscrizione posta sul basamento di una delle due sfingi: “Tu ch’entri qua pon mente parte a parte e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte”; e nella tradizione millenaria dell’Occidente, l’arte per eccellenza è l’Arte Regia.

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Il Sacro Bosco rappresenta quindi un trattato di Alchimia reso nella pietra, o meglio, un percorso iniziatico che, mediante l’Opera alchemica condurrebbe colui che lo intraprende “con cigli inarcate et labbra strette” – così recita parte dell’iscrizione sull’altra sfinge – alla propria realizzazione spirituale o, metaforicamente, alla trasmutazione del proprio piombo in oro.

Articolato su più livelli e percorribile attraverso vialetti disseminati di ghiaia e scalini, questo complesso induce quindi a stimolare principalmente il senso della vista, attraverso il quale è possibile penetrare il significato delle numerose sculture e della loro ragionata posizione.

I due giganti in lotta – che richiamano la morte e, quindi, la nigredo alchemica –, la tartaruga – simbolo dell’unione ermetica tra alto e basso -, l’orca che rimanda all’acronimo alchemico VITRIOL (visita interiora terræ rectificando inveniens occultum lapidem) e il pegaso al centro di una fontana – attivazione dell’Inconscio – sono le prime sculture in cui il visitatore si imbatte, per poter affrontare la propria trasformazione.

A queste, seguono altre sempre più coinvolgenti e dal significato sempre più complesso, come l’antro delle ninfe, la vasca dei delfini, la figura della vergine con il drago e il teatro, lungo un tragitto conducente alla cosiddetta casa pendente, il cui equilibrio disturbato e le sue vuote stanze disposte sui due piani dell’edifico consentono al visitatore di conquistare l’accesso alla parte superiore del percorso.

Ed è in essa che, attraverso un nettuno disteso, un drago che si avventa sulla sua preda, un elefante che stritola un guerriero, si giunge ai piedi della scultura più nota del Sacro Bosco, quella comunemente identificata con l’Orco, dalla cui bocca spalancata emergono due denti minacciosi e sul cui labbro superiore sono incise le parole ‘Ogni pensier vola’, appello all’uso dell’intuizione e della vis immaginativa per poter penetrare il mistero che lo avvolge.

E però, non è l’Orco a rappresentare il punto di arrivo di questo magico giardino, bensì un Tempietto posto all’ultimo livello del Sacro Bosco, raggiungibile attraverso un’ulteriore salita all’inizio della quale un Cerbero in pietra ammonisce il visitatore.

Una volta raggiunto l’edificio, è possibile cogliere come esso sia non casualmente posto in diretta corrispondenza con l’ingresso del percorso, quasi a voler significare il simbolo alchemico dell’Uroboro, il serpente che si morde la coda, rappresentante il ripetersi del ciclo che raffina le sostanze.

Con quest’ultima meraviglia si chiude quindi questo straordinario percorso di congiunzione tra microcosmo e macrocosmo che, per questa sua complessità simbolica, fatta di drammatica discesa e lenta risalita, si pone forse come un unicum nel suo genere, apprezzato e conosciuto più all’estero che in Italia.

 

CURIOSITÀ

 

In seguito alla morte di Vicino Orsini, nessuno si occupò del Sacro Bosco che venne quindi abbandonato per numerosi secoli.

Furono intellettuali e artisti come Claude Lorrin, Wolfgang Goethe, Salvador Dalì, Mario Praz e Michelangelo Antonioni che lo rivalutarono portandolo a conoscenza dei più.

Nel 1954, esso venne restaurato e restituito agli antichi splendori dal commendator Giovanni Bettini, la cui famiglia se ne occupa tuttora curandone, secondo le direttive impartite dalla Soprintendenza ai Beni Storico Artistici e del paesaggio del Lazio, le difficoltose opere di manutenzione e restauro.

Lorenzo Bellei Mussini