“L’uomo ha soltanto questo d’immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia” (Paola Faccioli)
‘Memoria’ e ‘ricordo’ sono due vocaboli di significato analogo e tuttavia diversi.
E’ l’etimologia, innanzitutto, a evidenziare la differenza: “memoria”, dal greco ‘mimnésco”, indica un’attività della mente collegata a una precisa esigenza e a un valore anche etico, la facoltà di mantenere in vita i contenuti del passato; esiste nella tradizione classica una Musa della Memoria, chiamata Mnemosyne, che è nota come madre delle nove muse, come a intendere che le arti hanno il compito di perpetuare la bellezza nel tempo; la cultura dell’età contemporanea ha inventato addirittura una scienza, la Mnemotecnica, atta a preservare nell’uomo ai più alti livelli la facoltà di cui si è detto, e il vocabolo ‘memoria’ è passato nel linguaggio tecnologico a designare una funzione specifica del computer.
“Ricordo” deriva invece dal latino “re-cordor” e significa “richiamare al cuore”: è quindi un termine attinente a un diverso campo semantico, quello dei sentimenti più che della ragione, ed è decisamente più individualistico e più soggettivo; implica inoltre una sorta di filtro (conscio o inconscio?) , in base al quale alcune esperienze del passato rimangono vividamente impresse o riaffiorano quando meno ce l’aspettiamo, o se le rievochiamo per trarne conforto.
Diverse sfumature hanno anche i verbi “dimenticare” e “scordare”. Dimenticare equivale a “non mantenere nella mente”, sia per distrazione che per incuria o precisa volontà di cancellazione; scordare, sempre in base all’etimo latino, equivale a “far uscire dal cuore”.
Anche qui la differenza consiste nel referente semantico, nel primo caso razionale – una sorta di difetto nel funzionamento della ‘ratio’ o consapevole negazione – nel secondo puramente sentimentale.
Interessante analizzare anche in altre lingue queste analogie e differenze.
In inglese, lingua certamente più “economica” dell’italiano, un unico vocabolo designa entrambi i concetti, “memory”.
In una canzone molto ‘larmouyant’degli anni cinquanta, Roy Orbison esorta a non privarsi mai di “memories”, nel senso più privato del termine.
In francese, lingua assai più elegante e complessa, esiste un vocabolo bellissimo, “réverie”, che designa la tendenza della psiche a perdersi nelle ‘fantasticherie’ risultanti dalla fusione di ricordo e sogno: i ricordi in effetti non sono mai o quasi mai nitidi, le immagini nel ricordo non hanno contorni definiti ma tendono ad assomigliare a visioni di sogno, a evanescenze oniriche.
Le “memoires” invece sono gli scritti autobiografici in cui si fa rivivere il passato in modo chiaro e cronologicamente consequenziale , come fanno, per citare solo due esempi, Giacomo Casanova e Carlo Goldoni.
La memoria è un’arte caratterizzata da norme precise come il funzionamento del cervello o necessità di ordine storico e sociale, il ricordo una dimensione interiore collegata al caso e alla sensibilità della persona.
La necessità di tramandare il passato attraverso testimonianze o “monumenta” pertiene alla memoria.
La volontà inconscia di migliorare la propria individuale condizione di vita pertiene al ricordo.
Parliamo di “damnatio memoriae” quando un personaggio di valore viene, per vari motivi più o meno individuabili, dimenticato o condannato a sparire dalla memoria pubblica; parliamo invece di “rimozione” in ambito psicanalitico, per indicare l’operazione inconscia, ossia della psiche, che cancella alcuni “ricordi” traumatici.
E’ come sempre la poesia a illuminarci in merito alle sfumature.
In Antonio Machado, grande lirico spagnolo del Novecento, troviamo tutta la suggestione del ricordo-reverie, personalissimamente esaltata in sublime elegia, nel testo
“El lemonero languido suspende”:
Il limone sospende in abbandono
un ramo scolorito e polveroso
sopra l’incanto della fonte pura
e là sul fondo sogna
l’oro dei frutti…
Sera così chiara,
quasi di primavera –
mite sera di marzo
che rechi il soffio del vicino aprile.
Io solo nella corte silenziosa
cerco un’antica e candida illusione.
Sul muro bianco muove qualche ombra,
qualche ricordo sulla balaustra
della fonte assopito, o dentro l’aria
un vagare di tunica leggera.
Fluttua nell’orizzonte della sera
quest’aroma d’assenza,
che all’anima splendente dice: mai,
e dice al cuore: spera.
Quell’aroma rievoca i fantasmi
delle fragranze vergini e defunte.
Sì, ti ricordo, sera lieta e chiara,
quasi di primavera;
o sera senza fiori, quando il vago
profumo mi recavi della menta
e del grato basilico
che mia madre serbava nei suoi vasi.
Tu mi vedesti immergere le pure
Mani nell’acqua calma,
per raggiungere i frutti tuoi incantati
che sognano sul letto della fonte…
Sì, ti ricordo, sera lieta e chiara,
quasi di primavera.
Che cos’è in questi splendidi versi il ricordo (la rèverie) se non un conforto, l’unico forse, al triste vuoto del presente?
Ma non sempre i ricordi confortano, ed esserne vittime può dare maggiore infelicità di un sano oblio.
Ecco un altro concetto collegato alla memoria: l’oblio, la dimenticanza e insieme lo “scordare”, che può essere, come nel Purgatorio dantesco, benefica panacea, anzi condicio sine qua non per la purificazione (scordarsi -e dimenticarsi- dei mali compiuti permette all’anima, come rigenerata, di accedere alle sfere celesti del Paradiso).
Quindi, l’assenza di ricordi può essere considerata salvifica.
Come risulta in questo testo, venato di una sottile ironia, di Daria Menicanti.
“Ambulante”
Vendeva da un canestro forme aeree
gentili: l’estro della danza, il suono,
l’odore delle cose nuove e voci
care perdute e il seme dei colori.
A me offrì la memoria – arte lontana,
arte ricca, diceva. Io volli l’altra,
che fa dimenticare.
Ci si domanda: esiste un nome che designi quest’altra arte, non ricca né “lontana”, che fa dimenticare?
Amnesia?
Smemoratezza?
Oblio?
Il più convincente dei tre sembrerebbe proprio il terzo lemma.
Talvolta i ricordi, come ci ‘ricorda’ il grande Cardarelli, fanno male al cuore.
“Passato”
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo,
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire
che mi appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapido!
Precipitoso e lieve,
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una trama
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Ma c’è una dimensione in cui ricordo personale e memoria collettiva, mito e storia, si possono unificare in un positivo recupero di archetipi universali e immortali.
Ce lo fa capire Maria Luisa Spaziani in un testo in cui intravvediamo, finalmente, un “ottimismo della memoria” con allusione a radici ancestrali e irrinunciabili per l’essere vivente a cui si dà il nome di uomo.
Io mi ricordo onde che s’infrangono
molto più forti rapide violente
contro scogli giganti alla cui vetta
non si leva nemmeno per scongiuro
mai la mano dell’uomo. Ne ricordo
l’orgoglio ed il candore, l’inesausta
potenza nel creare cattedrali
che nessun occhio sfiorerà nel tempo,
che rifiutan preghiere, e che nel rombo
millenario riscoprono la musica
che fu prima dell’Arca, che la terra
espresse singhiozzando eppur rapita
nel suo stesso morire
(da “L’occhio del ciclone”)
Silvio Raffo