La ‘beffa di Ronse’

Einmal ist Keinmal recita un proverbio tedesco.

“Ciò che si verifica una sola volta è come se non fosse mai accaduto”.

Chissà se Rik Van Looy lo conosce?

Certo gli farebbe comodo.

Sì, perché solo così riuscirebbe a cancellare una volta per tutte quello che è successo l’11 agosto del 1963.

Quel giorno a Ronse, in Belgio, si disputava il campionato mondiale di ciclismo.

Non una cosetta da poco.

Da quelle parti il ciclismo è un’autentica religione, qualcosa di paragonabile al calcio per i brasiliani.

Siamo nel cuore delle Fiandre e fiamminghi sono i due protagonisti di questa storia.

Rik Van Looy, ventinove anni, soprannominato ‘l’imperatore di Herentals’, idolo indiscusso di casa, il più grande specialista delle classiche di un giorno in quel periodo e probabilmente di tutta la storia del ciclismo.

Forte, intelligente, astuto, nel pieno della maturità sportiva.

È un maestro nel guidare la squadra e la sua tattica è perfetta e inesorabile.

Prima schiera la garde rouge, la ‘guardia rossa’, composta da una serie di fedelissimi gregari, per controllare la corsa e indirizzarla verso la conclusione a lui più congeniale, la volata; poi in prossimità dell’arrivo fa partire ‘il treno’, oggi prassi comune ma allora una novità assoluta, vale a dire che mette la squadra in testa a tirare in modo forsennato per impedire ogni scatto; infine sul rettilineo finale piazza uno sprint irresistibile e fa sua la preda.

Ha già vinto due volte il campionato del mondo, nel 1960 e 1961, e adesso sulle strade di casa punta al tris, per eguagliare Van Steenbergen, l’altro grande Rik del ciclismo belga che lo ha preceduto.

Benoni Beheyt invece ha ventitre anni.

Professionista da un paio di stagioni, si è messo in buona luce con qualche successo e ha dimostrato di avere dei numeri.

Forse non ha la stoffa del campione, ma può diventare un buon corridore.

Nota di colore, quello strano nome di battesimo gli è stato messo per onorare il nonno italiano.

Storicamente la composizione della nazionale belga è tutt’altro che semplice.

In Belgio i corridori forti sono sempre molti e tra di loro non scorre buon sangue.

Nel ciclismo le faide tra fiamminghi hanno fatto storia e non hanno niente da invidiare a quelle tra i clan della ‘ndrangheta calabrese.

Comunque Van Looy è riuscito a imporre qualche suo fidato compagno di squadra e ha speso più di una parola anche per Beheyt, che non è un suo gregario, ma è un giovane di valore, non ha ancora grosse ambizioni personali e può aiutarlo a controllare la corsa.

Una cosa è certa, il mondiale del 1963 ha un favorito unico, Van Looy.

Tutto il Belgio aspetta solo di celebrare il suo trionfo.

Il circuito, senza grandi asperità, sembra costruito apposta.

Quell’11 agosto si corre in una giornata che più fiamminga non si può; squarci di sole e scrosci di pioggia si alternano di continuo.

Non è il caso di scomodare Rembrandt, ma anche la luce è particolare, perennemente velata dalla polvere di carbone delle vicine miniere.

La gara si snoda senza grosse sorprese.

Ci sono diversi tentativi di fuga che non vanno a buon fine.

Van Looy con i suoi uomini tiene la situazione sotto controllo.

Beheyt ha lamentato di avere i crampi e se ne è rimasto in fondo al gruppo tutto il giorno.

A quattro chilometri dal traguardo Gilbert Desmet, uno dei belgi più forti e che notoriamente non ama Van Looy, scatta e prova a scompaginare le carte, ma non ha la forza di resistere al ritorno del gruppo, una trentina di corridori, che si presenta sul rettilineo d’arrivo.

E siamo alla volata, che sembra già finita prima ancora di cominciare.

A centocinquanta metri dal traguardo Van Looy è nettamente davanti a tutti.

Ha praticamente vinto.

Poi all’improvviso alla sua sinistra sbuca un’ombra dal niente.

Ha la sua stessa maglia: è Beheyt.

Van Looy lo guarda con gli occhi sgranati.

Forse neanche lui sa cosa gli è passato per la mente in quegli istanti. I due sono vicinissimi e Beheyt allunga addirittura una mano verso il sellino di Van Looy.

Per allontanarlo o, come ha sempre sostenuto lui, per spingere avanti il suo capitano?

La questione è destinata a restare insoluta nei secoli dei secoli.

Intanto siamo a cinquanta metri dalla linea d’arrivo, Van Looy, in trance, ha smesso di pedalare e sullo slancio Beheyt lo supera di mezza ruota.

Ha vinto.

È lui il campione del mondo.

L’oscuro gregario ha beffato il grande capitano.

Nei filmati d’epoca si vede un addetto della nazionale belga che subito dopo il traguardo appioppa una spallata a Beheyt e quasi lo fa cadere.

Si è parlato anche di un pugno da parte di Van Looy.

La scena della premiazione ufficiale ha un che di assurdo e sembra tratta da una commedia di Ionesco.

Sul gradino più alto del podio con la sua fiammante maglia iridata, Beheyt, più che un corridore che ha appena vinto il campionato del mondo, sembra un condannato al patibolo in attesa dell’esecuzione. Di fianco a lui, sul secondo gradino, Van Looy è una maschera tragica.

Lo sguardo di marmo perso nel vuoto a fissare l’infinito.

Probabilmente sta rivivendo mentalmente quella volata, sapendo già di essere condannato a riviverla per tutta la vita.

Al terzo posto c’è l’olandese De Hann, ma non se ne accorge nessuno.

Nei giorni successivi il Belgio vive uno psicodramma collettivo.

Giornali, radio, televisione sono i portavoce dello sdegno di un intero popolo che ama il ciclismo.

Si grida al tradimento.

Beheyt è bollato dall’infamia per sempre.

La questione arriva addirittura in Parlamento.

Ma niente e nessuno possono cambiare quell’ordine di arrivo.

Van Looy l’ha giurata a Beheyt e grazie al suo peso ‘politico’ in gruppo, convince colleghi e organizzatori a boicottare il traditore, che fatica a trovare ingaggi per le tante kermesse che si disputano in Belgio.

Poi, quando riparte la stagione delle corse, non appena il povero Beheyt si affaccia nelle prime posizioni del gruppo si ritrova alle costole Van Looy in persona o uno dei suoi gregari più fidati.

La vita per lui diventa impossibile.

Può sfoggiare la maglia iridata, ma per tutti è ‘il traditore’.

Dopo un paio di anni Beheyt si ritira e abbandona il ciclismo.

Ha solo ventisei anni.

Invece Van Looy continua a correre fino a trentasette anni e soprattutto continua a vincere.

Il suo nome è scolpito a lettere d’oro nella storia del ciclismo.

È l’unico corridore ad avere vinto tutte le grandi classiche, un record che neanche il cannibale Merckx riuscirà a eguagliare.

Il suo palmarès parla chiaro: 371 corse vinte in totale, tra cui 3 Parigi-Roubaix, 1 Milano-Sanremo, 2 Giri delle Fiandre, 1 Freccia Vallone, 1 Liegi-Bastogne-Liegi, 2 Parigi-Tours, 1 Giro di Lombardia, 2 titoli nazionali e naturalmente 2 Campionati mondiali.

Sì, perché il suo sogno della terza maglia iridata è rimasto inchiodato per sempre sul rettilineo di Ronse l’11 agosto del 1963.

Nonostante lo scorrere del tempo ancora oggi il ricordo della ‘beffa di Ronse’ è vivo e tra i due protagonisti la ferita non è mai stata rimarginata.

In Belgio Van Looy è tuttora un mito ed è popolarissimo.

Ha fatto il direttore sportivo e continua a frequentare il mondo del ciclismo, dove ogni tanto incrocia Benoni Beheyt che segue le corse in moto.

Per molti anni non gli ha mai neanche rivolto la parola.

Poi negli ultimi tempi pare che quando i due si vedono abbiano iniziato a scambiarsi un cenno di saluto.

Silvano Calzini