USA: il meglio e il peggio del mondo, forse?

‘America’ è un romanzo scritto da un narratore che mai ci ha messo piede e racconta del sedicenne Karl Rossmann spedito lì perché una serva l’ha sedotto e ha avuto un bambino da lui.

Kafka pare abbia solo sognato il porto di New York e riesce a descrivere un mondo intero con la precisione millimetrica di un genio.

Non poteva che sognare l’America.

 

“Fammi l’amore forte sempre più forte come fosse l’America”.

Persino una canzone che vuole dire tutt’altro parla dell’America, perché non ci sono altri luoghi capaci di accogliere in una parola sola il meglio e il peggio del mondo.

 

“Johnson assassin, liberez le Vietnam”, scandivano colonne di giovani per le strade del mondo all’apice della crisi e della guerra.

Tranne poi scoprire – paradosso di un Paese fatto di paradossi – che Johnson fu sul tema Vietnam (e non solo) molto più illuminato del tanto celebrato John Kennedy.

Eppure anche gli uomini politici frutto di quelle marce e di quei movimenti hanno sempre visto in Kennedy un eroe assoluto.

L’America permette anche questo: le frontiere, nuove e vecchie, si spostano a piacimento.

 

“Maccarone, tu mi hai provocato, io ti distruggo adesso.

Io me te magno”.

Nando Mericoni lascia corn flakes e bistecche di manzo di fronte a un piatto di pasta, perché ‘Un americano a Roma’ non può resistere alle tentazioni ancestrali.

 

“Basta telefilm americani”, gridano in coro intellettuali paludati, che difendono l’onore della cultura europea ed eurocentrica.

Senza capire fino in fondo che nelle serie americane sta la lettura profonda della società contemporanea, che il vero romanzo popolare è nelle pieghe di quei dialoghi dal ritmo perfetto e dalla capacità di leggere dentro se stessi, senza fare sconti alla società che produce mostri (‘Criminal Minds’), terroristi (‘Homeland’), politici dal cinismo inimmaginabile (‘House of Cards’).

 

“Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andare”.

La terra promessa può essere solo quella e, anche se il bastimento affonda, il sogno resta lì, fisso, coltivato da generazioni di emigranti con la valigia di cartone, da ragazze e ragazzi con la fissa della libertà, da artisti affamati di successo, da giovani rampanti che vogliono conquistare Wall Street, da campesinos messicani o guatemaltechi stremati dal cammino in un deserto ostile e pronti a sopportare angherie e soprusi.

L’America li contiene tutti, ne coccola molti, ne espelle moltissimi, ne condanna una moltitudine, ne sfrutta miriadi, ci indica dove va il mondo, ci dice ogni giorno che per cogliere un barlume di realtà bisogna chiedere alla polvere (John Fante) oppure sapere che “Dopotutto, domani è un altro giorno” (Scarlett O’Hara).

Maurizio Canetta