Oscar Wilde: “L’America è impresentabile!”

Parlare male degli Stati Uniti e degli americani – magari, seguendo l’esempio di non pochi tra i loro intellettuali, visto che i primi e più severi critici si annidano in quelle fila (ne ho altra volta trattato) – è esercizio comune da molti e molti decenni o da secoli come dimostrano le righe che seguono ispirate all’avventura oltre oceano di Oscar Wilde ed agli echi che nella sua opera quell’esperienza ha lasciato.

Grande successo e repliche su repliche a New York, a partire dal mese di settembre del 1881, del musical ‘Patience’, di Gilbert e Sullivan, operetta satirica che, ripetendo pari pari la estremamente positiva precedente esperienza londinese, diverte in specie la locale alta borghesia mettendo alla berlina gli esteti.

Produttore dello spettacolo Richard d’Oyly Carte che prende la palla al balzo e, quasi certamente seguendo un suggerimento di Sarah Bernhardt, propone all’allora ventottenne ma già famosissimo Oscar Wilde – ovviamente, all’epoca, il massimo esponente dell’estetismo – una serie di conferenze per tutti gli Stati Uniti (ma non trascurando il Canada) sulle tracce di Charles Dickens che aveva fatto quindici anni prima la medesima esperienza.

Dotatosi di un nuovo, particolarissimo guardaroba a suo parere adatto alla bisogna a causa del quale verrà messo alla berlina dai fogli satirici londinesi, Wilde si imbarcò sul transatlantico Arizona per approdare a New York la sera del 2 gennaio del 1882.

Essendo la discesa a terra dei passeggeri in programma per il giorno dopo, la nave fu subito raggiunta da alcune lance cariche di giornalisti che, saliti a bordo, scovarono Oscar e lo tempestarono di domande.

Celebre la sua prima battuta ‘americana’: “Non sono pienamente soddisfatto dall’Atlantico, non è così grandioso come mi aspettavo”.

Famosissima la sua dichiarazione, il dì seguente, alla dogana: “Età diciannove anni, professione genio, condizioni patologiche il mio talento”.

Da allora in poi, tutto quanto il grande irlandese ebbe a dire finì immancabilmente sulla pagina di un qualche giornale e non solo in America vista l’attenzione con la quale i corrispondenti dei quotidiani e delle riviste inglesi lo seguivano.

Wilde trascorrerà l’intero 1882 in giro per il continente nordamericano per tornare a Londra solo l’anno successivo, proclamare la ‘nascita’ di un secondo e nuovo se stesso e da lì trasferirsi a Parigi laddove soggiornerà cinque mesi all’Hotel Voltaire.

Sarà fugacemente ancora e per un’ultima volta a New York nell’estate del 1883 per presentare, per il vero con pochissimo successo, il dramma ‘Vera’.

Ma gli Stati Uniti, che certamente non gli piacquero, e gli atteggiamenti, per lo più provinciali, degli americani (in particolare, delle signorine: “… affascinanti piccole oasi di graziosa irragionevolezza in un vasto deserto di pratico buon senso”, per il cui viaggio di nozze, invariabilmente alle cascate del Niagara, si preoccupava considerando che quella “visione dev’essere una delle primissime delusioni, se non la più acuta, della vita coniugale americana”) torneranno molte volte a fare capolino e nelle sue sempre brillanti conversazioni e nelle sue geniali opere.

Assai criticamente dirà: “…la scoperta dell’America fu l’inizio della morte dell’arte”; “E’ il paese più rumoroso che sia mai esistito. Questo continuo tumulto finirà per distruggere le facoltà musicali”; “Un serissimo problema che il popolo americano dovrebbe prendere in considerazione è quello di coltivare la buona educazione. E’ il più evidente, principale difetto della civiltà americana”…

Cattivissimo, scriverà in una lettera: “Gli americani sono certamente grandi cultori degli eroi, e li scelgono sempre tra le classi criminali”.

Scolpita nel marmo la celeberrima battuta “Oggi, abbiamo davvero tutto in comune con l’America, tranne la lingua, naturalmente” (‘Il fantasma di Canterville’), metterà in bocca ai suoi personaggi non poche ulteriori sgradevolezze:

“Molte americane, quando lasciano il paese natio, assumono l’aria di ammalate croniche, convinte che questa sia una forma di raffinatezza europea” (ancora ‘Il fantasma di Canterville’);

“Forse, dopo tutto, l’America non è mai stata scoperta, Secondo me è stata semplicemente avvistata” (‘Il ritratto di Dorian Gray’);

”Dicono che gli americani buoni quando muoiono vanno a Parigi”…”Davvero? E dove vanno gli americani cattivi quando muoiono?”…”In America!”…(ancora, ‘Il ritratto di Dorian Gray);

“Queste ragazze americane si portano via i migliori partiti. Perché non se ne stanno al loro paese? Ci dicono sempre che è il paradiso delle donne.” “E’ vero, Lady Caroline. Ed è per questo che come Eva sono tanto impazienti di uscirne” (‘Una donna senza importanza’).

Mauro della Porta Raffo