Utilità e danni della memoria

Ebbra di soli e piogge la Memoria

chiede ormai stanca un po’ di ricreazione:

fuori dal Tempo, ingenua, senza Storia –

Ma non sarà l’Oblio nuova prigione?

(s.r., da “Stanchezza di Mnemosyne”)

 

Ricordare/ scordare – rammentare/dimenticare.

Doppia coppia di contrasti lievemente differenti, forse differenti in modo sostanziale.

Meglio, come sempre, rifarsi alla scienza dell’etimologia.

Re-cordor, in latino, significa “Trattengo nel cuore”, proprio come il suo contrario in italiano, “scordare” significa “faccio uscire dal cuore”, ‘ex-corde’.

“Rammentare” vale “richiamo alla mente, ossia alla memoria consapevole”; proprio come il suo contrario “dimenticare”, indica una cancellazione – anche inconsapevole – ma comunque un’operazione dell’intelletto.

Insomma: la prima coppia di vocaboli ha attinenza con la sfera affettiva, la seconda con la sfera razionale.

Quando Leopardi nell’idillio giovanile “Alla luna” (1819) scrive “O graziosa luna, io mi rammento/che or volge l’anno sovra questo colle/io venìa pien d’angoscia a rimirarti” ‘intende’ riportare alla memoria un momento preciso, è la sua cosciente volontà a voler “ricordare”.

Quando invece Paul Verlaine si lamenta: “Souvenir, souvenir, que me veux-tu?” (“Ricordo, ricordo, che vuoi da me?”) sta rivolgendosi all’indesiderato ri-sorgere nella sua memoria affettiva di un ricordo doloroso: non l’ha invocato, si è presentato da sé.

In Antonio Machado leggiamo: “E tutto si perdeva nel ricordo/come una bolla di sapone al vento”, e qui troviamo quella fusione sfumata di memoria e sogno che Gastone Bachelard chiama “rêverie”.

Il ricordo non è nitido e chiaro, i contorni della visione si disgregano, proprio come in un sogno.

Questa ‘stimmung’ è tipica, fondamentale, nella poesia lirica di ogni epoca.

L’imperfetto è il tempo preferito dalla lirica tradizionale:

“Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”,

“Era il maggio odoroso, e tu solevi”,

“Ricordo che quand’ero nella casa”…

Ma ricordo significava anche, per estensione, memoria.

Individuale e collettiva.

Memoria che consacra valori in cui bisogna credere altrimenti non si sopravvive.

Mnemosyne è la madre delle nove muse;  le arti sono figlie della Memoria, l’armonia delle Muse “vince di mille secoli il silenzio” nel Foscolo dei “Sepolcri”: i “monumenta” garantiscono l’immortalità dei “forti” e “quando il Tempo con sue fredde ali vi spazza fin le rovine” interviene la Poesia a tutelarne la memoria.

Perché è giusto ricordare?

Mantenere nel cuore ciò che ha costituito il meglio del nostro passato individuale e storico?

Perché altrimenti non sapremmo neanche chi siamo e non avremmo nulla di bello con cui intrattenerci nel pensiero.

(Come i giovani d’oggi, totalmente privi di memoria e quindi di sentimenti).

E’ bello e giusto rammentare, ma soprattutto ricordare, perché il ricordo alimenta il sentimento.

Tutto ciò non toglie che a volte sia meglio (più ‘terapeutico’) dimenticare  e scordare.

Nella sua poesia “Ambulante” Daria Menicanti scrive:

“Vendeva da un canestro forme aeree

gentili: l’estro della danza, il suono,

l’odore delle cose nuove e voci

care perdute e il seme dei colori.

A me offrì la memoria: – arte lontana,

arte ricca – diceva. Io volli l’altra

che fa dimenticare”.

Ciò che la Menicanti auspica per il proprio benessere è l’oblio, lo ‘scordare’ e il ‘dimenticare’ insieme.

E qui si apre un capitolo a parte: giova in qualche caso più lo scordare (e il dimenticare) che il ricordare (o rammentare).

Beata incoscienza dello smemorato, se ricordare è fonte più di dolore che di gioia.

Scrive Emily Dickinson:

“E’ il passato un’assai strana creatura

guardarlo fisso in volto

può portare

ad estasi, o a sventura –

Se lo incontri disarmato

ti consiglio di fuggire –

quella sua munizione arrugginita

può funzionare ancora”.

A volte il dimenticare e lo scordare sono forme di difesa.

Ricordare tutto sarebbe insostenibile.

L’amnesia è una forma di soccorso che salvaguarda dallo scoramento e dalla disperazione.

La soluzione migliore, perfino ovvia, è cercare di ricordare solo le cose liete.

Le cattiverie,  le offese e le ingiustizie patite , a che vale ricordarle? Rammentiamole soltanto, (cioè non dimentichiamocele) per non ricadere negli errori già commessi (anche se poi ci si ricade ugualmente…)

Ma soprattutto, cerchiamo di mantenere vivi nel ricordo i cari volti dell’infanzia, i “beloved places” dove siamo stati felici.

Ricordare può in tal modo equivalere a salvarsi.

E impariamo a memoria , ripetendoli “ex imo corde” nel tempo del dolore, i versi più belli dei più grandi poeti.

Quella sì che è “the best society”, per rubare un’immagine a Philip Larkin.

Cerchiamo soprattutto di ricordare le emozioni (“emotions recollected in tranquillity”, come suggerisce Wordsworth) e manteniamo viva quella particolare qualità d’ascolto che nell’infanzia ci rese particolarmente attenti alla bellezza, quel “seno concavo” da cui sentivamo “risuonare le voci degli altri” e comunicavamo magicamente con loro e con la natura, come il fanciullino pascoliano.

Ricordiamoci, e cerchiamo di far rivivere, quell’ incantato e vigile candore nella disincantata alienazione dell’età adulta (tanto spesso ‘adulterata’).

Perché se è vero che (gozzanianamente) “la bellezza del giorno / è tutta nel mattino” l’unico modo possibile per non perderla del tutto e farla sopravvivere fino a sera è “ricordarla”: mantenerla ferma nel cuore, e quindi nel tempo.

Silvio Raffo