Annemarie Schwarzenbach, angelo devastato e imperdonabile

In un’ipotetica hit parade di ‘bad girls’ della letteratura, dovremmo collocarla senz’altro ai primi posti.

Bad girl nel senso di ‘imperdonabile’ nell’affermare se stessa, la sua ardente urgenza di vita, la sua rivolta contro un mondo assurdo e contrario alla bellezza.

Annemarie Minna Renée Schwarzenbach nasce il 23 maggio 1908 in una famiglia tra le più ricche e potenti della Svizzera (suo padre è forse il più facoltoso produttore di seta del mondo).

A Bocken, la tenuta sul lago di Zurigo chiamata da tutti “il castello”, la sua infanzia trascorre spensierata, in interminabili scorribande coi fratelli fra prati colline e torrenti.

La madre, Renée Mille, discendente da una contessa di Bismark, è una donna orribile, una lesbica nazista con una passione sfrenata per i cavalli, che preferisce nettamente a qualsiasi essere umano.

Detesta con tutta se stessa una figlia così intelligente ed estrosa, e fa di tutto per rovinarle la vita (distruggerà anche molti dei suoi scritti per invidia e timore che contengano allusioni a lei e alle sue mostruosità).

Fin da piccola Annemarie predilige abbigliamenti maschili (i pantaloni di cuoio che Renée le ha portato da Monaco diventano presto la sua divisa, e sono anche l’unico legame concreto che possa avere con la madre).

Il padre Alfred, “colto, riservato e superiore” è più spesso assente che presente, si reca ogni anno negli Stati Uniti per controllare l’andamento delle fabbriche e non si oppone alla relazione di sua moglie con una nota cantante.

Da questo paradiso-inferno natale Annemarie si allontanerà per una serie di viaggi, soprattutto in Oriente, che altro non sono se non fughe alla ricerca del suo baricentro vitale: il viaggio più significativo sarà senza dubbio quello in Persia con Ella Maillart: è la prima volta che due donne – Thelma e Louise ante litteram – compiono da sole in automobile un viaggio del genere (siamo ancora negli anni Trenta).

Di queste infaticabili esplorazioni in luoghi  “alla fine del mondo”, che sono per lei metafora dell’alterità ancestrale in cui abita da sempre il suo spirito selvaggio, Annemarie dà un rendiconto dettagliato, insieme realistico e romanzesco, in più di un libro e in un buon numero di saggi giornalistici: il suo si rivela uno stile “lirico-rapsodico” da un lato, e fortemente critico dall’altro.

La difficoltà di rapporto con l’altro – che deriva dalla difficoltà di rapporto con il suo io e ancor più col suo sé – causerà scontri, allontanamenti, relazioni effimere e assurde: con Ella litigherà violentemente e la separazione sarà inevitabile, ai due figli di Thomas Mann (che di lei aveva detto “Peccato non sia un ragazzo, sarebbe stata un bellissimo efebo”) sarà legata morbosamente negli ultimi anni, divenendo vittima delle loro angherie – sia Klaus sia Erika, in modi diversi, la danneggeranno in modo irreparabile – arriverà perfino a unirsi in matrimonio con un uomo di cui non le importa in realtà nulla e col quale rimarrà pochissimo tempo, e il tunnel della droga – prevedibile approdo di un’esistenza lacerata e raminga come la sua – sarà il capitolo finale.

(Molto appropriato il titolo della biografia di Areti Georgiadu, ‘La vita a pezzi’).

Il nomadismo è per Annemarie una sorta di vocazione: ai viaggi in Oriente (Persia, Russia, India, Afganisthan) fa da contraltare la ‘grande mela’, dove trova altro materiale per le sue fotografie (arte  coltivata come alternativa alla scrittura, con esiti di sorprendente modernità) e per le sue avventure sentimentali: particolarmente intensa quella con la scrittrice Carson Mc Cullers, altra ‘bad girl’ dalla personalità geniale e ‘imperdonabile’ ribelle.

La dipendenza dalla morfina rende la vita di Annemarie sempre più difficile, ma non viene mai meno il suo estro creativo: la narrativa le risulta congeniale sia nella forma del racconto  (‘La gabbia dei falconi’) sia in quella del romanzo (il suo capolavoro è forse ‘Sibylle’, raffinatissima vicenda di amore, inganni e solitudine tra le luci e le ombre di una Berlino sull’orlo del dopoguerra, agli inizi degli anni Trenta).

Un destino come quello di Annemarie Schwarzenbach, “angelo devastato” dal demone dell’autodistruzione, non può certo contemplare una vita lunga e munifica di doni.

La banalità dell’incidente che causa la sua morte resta comunque beffarda e quasi incredibile: nella nativa Svizzera, a Sils Maria, (il buon retiro anche di Friedrich Nietzsche) per cedere il posto in carrozza a un’amica usa per un tratto di cammino impervio  l’amata bicicletta, da cui cade finendo malamente sul selciato e picchiando la testa.

A casa – e qui alla beffa subentra l’orrore – la madre la lascia praticamente morire senza farle avere le cure necessarie.

Leggiamo da una pagina di Sybille un brano di sottile, feroce introspezione, in prima persona maschile:

“Mi sto abituando a essere solo.

Annemarie Schwarzenbach
Annemarie Schwarzenbach

Tutto è irreale e diverso, assai lontano dalle solite cose.

Vorrei essere liberato da qualcosa, ma ho paura di fare un respiro profondo.

Vedo sempre e soltanto i prati, le colline grigio-brune e gli alberi nel bosco, e non penso al fatto che esistono altre regioni, campagne o città, dove ritornerò.

Non voglio saperne.

Si può vivere da soli?

E’ possibile sottrarsi alle solite forme dell’esistenza?”

Domanda di abissale profondità quest’ultima: lacerante e terribile.

Annemarie ci ha provato: ha provato a combattere il grigiore e la durezza di una vita arida e convenzionale, ha provato a evadere dalla gabbia di un sistema soffocante e di un universo in crisi, ma ha trovato solo disperazione e follia, incomprensione e falsità.

Ma nella scombinata labirintica babele di cui è stata protagonista, in una intensissima esplorazione delle più disparate esperienze ‘proibite’ dal filisteismo del suo mondo, si è mantenuta sempre fedele a un diktat:

“Bisogna riconoscere certe necessità della vita.

Ciò non ha nulla a che vedere con i pregiudizi sociali, ma con la nostra anima, con il nostro rapporto con Dio”

Silvio Raffo