La delusione ancora mi brucia

Nel 1999, decisi di presentarmi per Forza Italia alle elezioni europee. Per quanto il Parlamento di Strasburgo contasse allora anche meno di adesso, l’idea mi affascinava.

Sono nato a Vienna, ho vissuto lunghi anni all’estero, parlo quattro (quasi cinque) lingue e nel 1992, eletto al Senato con Forza Italia e la Lega, avevo preferito il posto di sottosegretario agli Esteri a quello, certo più prestigioso ed influente, di presidente dei senatori del mio partito.

Per giunta, avendo fatto per sei anni il capo dei servizi esteri del Corriere della Sera, credevo di conoscere la politica europea meglio di buona parte degli altri politici italiani.

Lo stesso Berlusconi mi incoraggiò a tentare questa avventura, perché aveva candidato il capogruppo Tajani a sindaco di Roma e, in caso di elezione, io avrei dovuto rimpiazzarlo.

Per una precedente esperienza fatta con l’alleanza PRI-PLI nel 1984, sapevo che il compito era improbo.

In un collegio di quattro regioni e più di quattordici milioni di elettori, e con un budget molto modesto dovuto soprattutto al contributo di alcuni amici, mi rendevo conto che per prendere un numero sufficiente di preferenze bisognava avere l’appoggio di almeno una organizzazione ben strutturata sul territorio, i cui aderenti seguissero le indicazioni del centro.

Io avevo solo quella della Associazione dei profughi giuliano-dalmati, che mi erano grati per avere cercato di ottenere, quando ero alla Farnesina, la restituzione dei beni che erano stati loro confiscati da Tito dopo l’esodo; e, se vogliamo potevo contare sul popolo dei lettori del “Giornale”.

I miei concorrenti in lista avevano ben altri appoggi, nei sindacati, nella Coldiretti, in Publitalia e via dicendo, e quando percorrevo in automobile le strade del collegio e mi capitava di passare per città e villaggi i cui abitanti, probabilmente, non sapevano neppure che io fossi candidato, venivo assalito dallo scoramento.

Nonostante queste difficoltà, e grazie a un gruppo di amici cui non sarò mai abbastanza grato, il risultato non fu malvagio: ero il secondo dei non eletti, con circa trentamila preferenze, ma davanti a me c’erano lo stesso Silvio Berlusconi, che aveva già deciso di optare per un altro collegio, e Marcello Dell’Utri, che era stato eletto anche in Sicilia.

Con un blitz ad Arcore, persuasi il Cavaliere a fare scegliere al suo amico la Sicilia, per cui alcune sere dopo Massimo De Carolis, allora presidente del Consiglio comunale di Milano, poté annunciare all’inizio di seduta che il collega Livio Caputo era stato eletto parlamentare europeo.

Quindi, due giorni prima della seduta inaugurale del Parlamento, partii in macchina alla volta di Strasburgo.

Nel grande palazzo che ospita l’assemblea, era già stato predisposto un ufficio con la targhetta con il mio nome sulla porta.

Ma, a esattamente quaranta minuti dall’ora X, è suonato il telefono cellulare: era un imbarazzatissimo segretario del gruppo, che mi annunciava l’arrivo di un fax dall’Ufficio elettorale della Cassazione secondo il quale la mia elezione non era valida: Dell’Utri – era la tesi dei magistrati – non avrebbe potuto optare per la Sicilia, in quanto nel Nord-Ovest era stato eletto direttamente, mentre nella circoscrizione delle Isole era subentrato a Berlusconi.

Ergo, io dovevo tornarmene a casa, e mi sarebbe subentrato il primo eletto siciliano, il noto dottor Scapagnini, sindaco di Catania.

Non ho fatto buon viso a cattivo gioco.

Con l’aiuto di un grande amministrativista e grande galantuomo come il prof. Ribolzi, ho fatto ricorso al TAR del Lazio, che mi ha dato ragione.

Scapagnini si è appellato al Consiglio di Stato, ma anche questo mi ha dato ragione, considerando gli argomenti dell’Ufficio elettorale infondati e capziosi.

Livio Caputo
Livio Caputo

Nel frattempo era passato quasi un anno, ma ne restavano altri quattro.

Ma quando mi apprestavo già a festeggiare, ho appreso da una nota d’agenzia che Dell’Utri aveva, in extremis, revocato la sua opzione per la Sicilia e deciso di rimanere in Lombardia.

Un giorno che ho avuto occasione di chiedergli la ragione di questo tardivo voltafaccia, mi ha dato una spiegazione alquanto strana, che non mi sembra qui il caso di pubblicizzare visto che sta scontando una lunga pena detentiva per, mi pare, “concorso esterno in associazione mafiosa”.

Questa vicenda, che ho voluto raccontare nei particolari, ha cambiato la mia vita.

Al momento, avevo già sessantasei anni, ma avevo deciso che avrei dedicato il resto della mia carriera politica a costruire, nei limiti (molto stretti) del possibile, una Europa più efficiente.

Intendevo, cioè, fare il deputato europeo a tempo pieno, passando tutte le settimane dai tre ai quattro giorni tra Strasburgo e Bruxelles, allacciando rapporti con i colleghi delle altre nazioni del partito popolare e cercando di portare avanti gli interessi dell’Italia ovunque possibile.

Contavo, dandomi da fare più di tutti gli altri, di riuscire a fare due legislature e di concludere la mia avventura politica in maniera costruttiva e intelligente.

Mi ero già dato da fare per prendere casa a Bruxelles, in modo da potere costruire anche buone relazioni sociali e di vivere per il prossimo decennio immerso in un progetto che mi aveva sempre suggestionato.

Non è andata così.

Sono tornato a Milano a fare il consigliere comunale e il giornalista, ma, non esito a confessarlo, la delusione ancora mi brucia.

Livio Caputo