Svizzera: la terra con la quale condividiamo luce e colori

Per chi è nato e cresciuto in mezzo ai laghi, Svizzera è cosa diversa che per gli altri italiani: è terra con cui si condividono luce e colori, collegata da vie d’acqua percorse da secoli.

Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, parlava dei nostri siti descrivendoli come “…paesaggio moderato, civile, invitante al riposo, adatto per la riflessione, non senza una punta di severità e qualche richiamo illusorio ai piaceri romantici della vita in natura.

Le ville fanno subito da correttivo inquadrando quel sogno idillico.

Le colline boscose lasciano scorgere tra i varchi le Prealpi lombarde, così meste e meditative, e la catena delle Alpi lontane, se lo spazio si allarga; ma il panorama è sfumato anche se è vasto, e l’arte della velatura qui eccelle.

Sette piccoli laghi interni, due grandi laghi , il Verbano e il Ceresio, che bagnano la provincia, il Lario a pochi passi, con il loro riverbero mantengono nell’ aria una lucentezza molle.“

Con la nostra Svizzera di prossimità, con la “vicina Svizzera“ illuminata della stessa lucentezza molle, abbiamo sempre avuto rapporti dialettici ma, in fondo, questioni di campanile interne al Ducato di Milano.

La Svizzera è stata parte della nostra storia dell’Ottocento e del Novecento.

Da terra della libertà per i fuorusciti del Risorgimento a corridoio temuto, durante la prima guerra mondiale, quando pensavamo che la Germania potesse violarne la neutralità e invadere la Lombardia, a luogo sicuro per tutti quelli che vi trovarono rifugio durante e dopo la guerra civile del ’43 – ’45.

Un anno cruciale fu il 1947: il governo presieduto da Alcide De Gasperi, e per esso il Ministro degli Interni Mario Scelba, il 27 novembre 1947 destituì il Prefetto di Milano Ettore Troilo (nominato dal CLN) con un atto di normalizzazione burocratica che apparve ostile al PCI.

Ne nacque una vera e propria insurrezione guidata dall’On. Pajetta e culminata – il 28 novembre 1947 – nell’occupazione della Prefettura di Milano.

Tutto finì con le dimissioni che l’Avv. Troilo rassegnò di lì a qualche giorno ma le strade per i valichi di Chiasso, Gaggiolo e Ponte Tresa erano state invase da berline blu e nere e la grande borghesia milanese aveva riscoperto Lugano, vicino rifugio italofono, come ipotesi di soluzione per eventuali tempi difficilissimi.

Il Canton Ticino era diventato, se non un’alternativa, almeno una soluzione possibile per tempi grami.

Spero che i miei amici ticinesi mi ascoltino e, prima o poi, dedichino all’On. Pajetta almeno una piazza.

Insomma il nostro interesse ai tabacchi lavorati, alla benzina e alla saccarina per i diabetici, nella metropoli si trasformava in qualcosa di molto più importante.

Con il boom economico italiano, daccapo: casseforti capienti in cui rifugiare denari concupiti dal governo di centro – sinistra che ben presto si riempirono fino a scoppiare e banche e finanziarie che diventarono attrattive non solo per gli italiani sensibili all’argomento del risparmio fiscale.

Intendiamoci la Svizzera Svizzera (Ginevra, Berna, Zurigo) assommando in sé neutralità economica a neutralità politica, era sempre stata il caveau delle case regnanti e delle élite economico-finanziarie del mondo, ma, ancora una volta come in passato, dimostrava di essere capace di far tesoro della democratizzazione di un’ esigenza.

Con l’ingresso nel terzo millennio c’è stata un’altra svolta che le autorità italiane si ostinano a non voler capire: in Ticino non vanno più solo soldi ma imprese che trascinano un popolo di circa sessantamila persone – i frontalieri – soggetto a ordinamenti giuridici diversi secondo le ore del giorno.

Insomma il confine che separava l’area di produzione della ricchezza dal salvadanaio sembra sempre più quello tra l’area di produzione e di custodia della ricchezza e la residenza di prestatori   d’opera e subfornitori.

I cugini ticinesi non han dormito sugli allori e, dagli anni Cinquanta ad oggi, si sono messi ad offrire servizi (finanziari, assicurativi, legali, ecc) molto sofisticati.

Son diventati glocalisti (globale/locale): interlocutori del mondo, cosmopoliti orgogliosi della loro autenticità come non potranno mai esserlo i cosmopoliti finti.

Oltre il (la) Tresa non succede di sentir infarcire un italiano approssimativo di improbabili espressioni anglofone: si parla la lingua del cliente e non la si sfoggia come espressione di esotismo.

La si possiede come strumento: un fatto, non un ornamento.

Lavorano in inglese o francese o tedesco o in italiano ma alle diciotto tornano a parlare il loro (il nostro ) dialetto.

Qualcosa che ricorda le splendide città del Mar Baltico: secoli e secoli di contatti con i mercanti stranieri, città poliglotte ma non esterofile, orgogliose della loro originalità linguistica.

Insomma, mi sembra che i cugini ticinesi abbiano avvicinato da protagonisti tutto quanto c’è di nuovo e di emergente non solo senza travestimenti ma con profondo rispetto per i nonni (loro e nostri) che se anche legavano al collo il tovagliolo hanno percorso le vie del mondo da ambasciatori di indiscutibile eccellenza lavorativa.

Sono ancora vive le tradizioni che ci accomunano e che si riassumono nella capacità di godere di cose semplici (il crotto, la passeggiata in montagna, la gita in battello sui laghi …).

Adesso sono gli altri che vengono in Ticino ma neppure questo gli ha “dato alla testa“: mantengono bene quel che hanno con la meticolosità di chi ne misura l’importanza sul prezzo costato a chi è venuto prima.

Le istituzioni sono vicine e senza pennacchi: gli inevitabili contrasti restano discussioni in famiglia, mai liti tra estranei.

Nella capacità di essere più che di apparire dei nostri Svizzeri vicini a volte mi sembra di ritrovare insieme una parte dei miei nonni e una parte del futuro che mi piacerebbe per i miei figli.

Fabio Bombaglio