Diplomatici e letteratura

Gli scrittori non amano molto i diplomatici: basti pensare al ritratto che di uno di loro fece Paolo Monelli nella ‘Morte del diplomatico’ od a quello che Marcel Proust fece del marchese de Norpois, un ex ambasciatore che spaccia frasi fatte e banalità (“la tradizionale spinta della Russia verso i mari caldi”) con il tono di chi dispensa gocce di saggezza.

Il fatto si è che “per la lunga pratica della diplomazia egli si era imbevuto di quello spirito negativo abitudinario conservatore che è appunto lo spirito delle cancellerie” (e dire che non un diplomatico Proust intendeva prendere in giro sotto le spoglie del marchese, ma Anatole France, guarda caso uno scrittore).

Non meno feroce era stato il ritratto che Stendhal aveva fatto ne ‘Il rosso ed il nero’ di Charles de Beauvoisis, un giovane diplomatico “alto, messo su come una bambola, i cui tratti avevano la perfezione e l’insignificanza della bellezza greca”.

Tutto in lui “era meravigliosamente curato… la sua fisionomia nobile e vacua annunciava poche idee e tutte perbene…”.

Insomma un perfetto imbecille.

E dire che lo stesso Stendhal si diede da fare per ottenere da Guizot almeno un posto di console.

È vero che, una volta  ottenutolo, si guardò bene dal lavorare come avrebbe dovuto a Civitavecchia preferendo trascorrere le sue giornate a Roma per osservare e, per nostra fortuna, scrivere sulla vita e sulla società italiana dell’età della Restaurazione.

Insomma Stendhal non era un diplomatico-scrittore ma uno scrittore-console (temporaneo) che non amava affatto i diplomatici.

Sono invece questi a voler fare gli scrittori.

A che cosa si deve la loro insana passione di trasformarsi in letterati, saggisti o addirittura poeti?

Qualcuno potrebbe insinuare che la ragione dovrebbe essere ricercata nel fatto che non avendo, oltre alle cerimonie ufficiali ed alla partecipazione ai ricevimenti, altre reali occupazioni, essi dispongano di questa sola risorsa per  impiegare in qualche modo il loro tempo.

Ma si tratterebbe di pura malignità.

Altri potrebbe non meno perfidamente pensare che molti diplomatici scrivono per una sorta  di rivalsa, allorquando si accorgono che i loro rapporti redatti con tanta maestria e profusione di acute analisi, di arguti riferimenti storici e di colti approfondimenti sociologici non sono quasi mai letti dal ministro degli affari esteri, a cui pure sono formalmente indirizzati.

In genere infatti essi sono affidati al più giovane dei  segretari con l’annotazione  del capo: “se ne vale la pena riassumere in una pagina di non più di trenta righe”.

Sua Eccellenza infatti fa la sua politica estera sulla base delle indicazioni del partito e dei suoi finanziatori e con un occhio ai suoi elettori, senza badare a quel che dicono  scrivono o suggeriscono i suoi  diplomatici.

Questi ultimi non troverebbero perciò altro sfogo alla sconvolgente scoperta, che prima o poi tutti fanno di non essere letti, se non quello di  rivolgersi ad un pubblico più vasto scrivendo di ben altro che di tradizionali amicizie, di intercambio commerciale, di equilibri strategici.

Qui ci avviciniamo forse un po’ di più ad una delle vere ragioni della passione letteraria dei diplomatici: a provocare l’alluvione di opere letterarie dei diplomatici è il desiderio di evasione.

Se solo ha qualche curiosità intellettuale, il diplomatico si interessa del paese nel quale è stato destinato in maniera diversa da quella sbrigativa e pittoresca dell’inviato speciale di un giornale, o peggio ancora di un turista che, quando racconta che è stato in Egitto intende dire non già che ha visitato la valle dei re o il museo egizio, ma che è stato a crogiolarsi al sole di Sharm-el-sheik.

No, egli si chiede come vive la popolazione di cui per tre o quattro anni sarà cittadino, che cosa legge, quale è la sua cultura, quali sono le sue tradizioni, quali le attese.

Tutte cose, bisogna riconoscerlo, che ben poco possono interessare quel ‘Signor Ministro’ che campeggiava (ora con il diffondersi della corrispondenza elettronica non più) in testa ai suoi rapporti.

Un intreccio tra desiderio di evasione, anche interiore, di curiosità per la sua nuova provvisoria patria e di nostalgia per quella autentica è spesso alla base dell’attività intellettuale di questo nomade che ha attraversato i secoli e che forse è destinato a sparire.

Purtroppo però talvolta egli si dedica alla narrazione  degli eventi a cui ha assistito e che non esita a definire ‘storici’, credendo addirittura di avervi influito: la modestia non è la virtù che meglio lo caratterizza.

Nella migliore delle ipotesi quelle sue memorie serviranno a qualche facitore di tesi universitarie o quale materiale grezzo per gli storici.

Bisogna che gli autori-diplomatici si rassegnino  a questa triste verità.

Direte che c’è ben altro: c’è Paul Morand, c’è Jean Giraudoux, ci sono le poesie di Paul Claudel, quelle di Saint-John Perse, quelle di Pablo Neruda…

Che importa che Claudel nelle sue poesie e nelle sue tragedie abbia esibito una improbabile pietà religiosa ed una commovente compunzione.

Egli resta pur sempre una gloria della letteratura della Francia, oltre che del suo corpo diplomatico.

Come d’altronde il secondo che abbiamo citato, Marie-René Alexis Saint-Leger Leger, detto in diplomazia più modestamente Alexis Leger, premio Nobel per la letteratura 1960 sotto il nome di Saint-John Perse per dei poemi tanto più ammirati quanto meno  letti, digeribili e digeriti.

Che importa se nella sua autobiografia si sia inventata una vita diversa da quella vera a cominciare dai nomi che si era manipolati?

Non sempre poesia è verità, come avrebbe voluto Goethe.

Quanto a Neruda, altro premio Nobel (1971), bisogna ammettere che seppe ben alternare l’attività diplomatica con le bellissime poesie d’amore e quelle forse meno belle in lode a Stalin, per tacere dell’assistenza prestata quando era console a Città del Messico ai suoi compagni di partito incaricati di far tacere Leone Trotsky a colpi di piccone in testa.

Ma ci sono stati altri premi Nobel diplomatici come il messicano Octavio Paz (1990), il greco Ghiorgos Seferis (1963), lo jugoslavo  Ivo Andrić (1961).

E gli italiani?

Nessuno di loro ha ricevuto quella distinzione.

E dire che una lista incompleta, che teneva conto soltanto dei diplomatici che hanno scritto dopo la seconda guerra mondiale e si ferma al 2004, riportava centoventi nomi.

Ma già anche prima la ‘carriera’ aveva avuto degli ottimi scrittori e letterati, da Costantino Nigra a Carlo Dossi e dopo di loro, tra gli altri, Daniele Varé, Pietro Gerbore e Paolo Vita-Finzi, forse il più grande di tutti, non solo per i suoi pastiches e per il saggio politico-letterario ‘Le delusioni della libertà’, ma anche per i suoi ‘Giorni lontani’, purtroppo pubblicati postumi.

Tacciamo dei viventi per non far torto a nessuno e per non crearci altri nemici.

Tuttavia ci sarà consentito citare almeno Sergio Romano e Maurizio Serra, ambedue storici e al contempo letterati.

Quanto al mancante premio Nobel consoliamoci: talvolta non solo è necessario non riceverlo ma, come si diceva per la Legion d’onore, è necessario non meritarlo.

Alberto Indelicato