“Veri” e “falsi” parlamenti

Pubblichiamo un interessantissimo intervento di Raimondo Fassa che analizza con sapiente dottrina i parlamenti, a partire da quello europeo, e le loro competenze – MdPR

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Il dibattito politico italiano è oggi concentrato sulla proposta renziana di riforma del Senato.

Nonostante le elezioni per il suo rinnovo siano imminenti, poco invece si parla del Parlamento Europeo. E, quando lo si fa, è solo per pronosticare le future percentuali di consenso dei partiti: le elezioni europee, insomma, considerate come “maxisondaggio” in vista delle politiche nazionali.

La ragione di tale scarso interesse si radica in un convincimento assai diffuso non solo fra i comuni cittadini, ma anche presso la classe politica e gli operatori dell’informazione: che, cioè, le elezioni europee non siano elezioni “vere” poiché quello di Strasburgo non sarebbe un “vero” Parlamento.

 

In questo intervento mi propongo di sfatare questo mito.

Le mie tesi di fondo sono che, in realtà,

a) il Parlamento Europeo ha più o meno gli stessi poteri di quelli nazionali,

b) i poteri dei Parlamenti nazionali sono venuti via via limitandosi nel tempo,

c) pertanto  – ammesso e non concesso che quello europeo non sia un “vero” Parlamento –  altrettanto poco lo sono quelli nazionali.

 

Vediamo innanzitutto le ragioni contrarie.

Del Parlamento Europeo, si è soliti affermare che non sarebbe “un vero parlamento”, perché non avrebbe il potere

né di “fare le leggi”,

né di “legittimare” il governo comunitario (intendendosi, con tale termine, soprattutto la Commissione UE).

Entrambe le affermazioni hanno un tacito presupposto.

E, cioè, che esistono dei Parlamenti “veri” i quali, invece, di questi due poteri pienamente godono: ossia i Parlamenti degli Stati nazionali.

 

Ora, a mio avviso modesto ma fermo:

in primo luogo, non è vero che i Parlamenti nazionali  – segnatamente quello italiano –  siano gli unici esclusivi titolari di quello che siamo soliti chiamare il “potere legislativo” né che sia più così assoluto il loro potere di indirizzare i governi;

in secondo luogo, neppure è vero che il Parlamento Europeo sia del tutto privo di potestà tanto legislative quanto di legittimazione (e correlata delegittimazione), impulso, controllo e critica nei confronti degli “esecutivi” comunitari.

 

Rispondiamo innanzitutto alla prima domanda: è vero che i Parlamenti nazionali sono gli unici esclusivi titolari del potere legislativo e del potere di indirizzare i governi?

Una delle tante astrazioni in cui troppe volte crediamo senza riflettere è che i poteri dello Stato siano tre  – legislativo, esecutivo e giudiziario –  e che tre organi  – Parlamento, Governo, Magistratura –  ne siano gli assoluti e rispettivamente esclusivi titolari.

In realtà le cose non stanno affatto così.

Da tempo il Parlamento nazionale è progressivamente venuto quasi del tutto perdendo, sotto il profilo sostanziale, il potere legislativo.

Le ragioni di tale perdita sono sostanzialmente due, entrambe bene e da tempo studiate dai politologi: da un lato, la creazione dei partiti di massa e, dall’altro, il “complessificarsi” della società.

Dal primo punto di vista, vale appena la pena di ricordare che in rerum natura esistono non i Parlamenti, ma i parlamentari.

La maggior parte di questi ultimi è affetta da una fondamentale preoccupazione: quella di permanere in politica il più a lungo possibile, e cioè la rielezione (e, prima ancora, la ricandidatura). E quale miglior modo di assicurarsi l’una e l’altra dell’assoluta fedeltà a quelle vere e proprie “agenzie di collocamento” degli aspiranti politici in cui si sono oggi tramutati i partiti?

Per questo i “partitanti” votano nel Parlamento nazionale non “senza vincoli di mandato” (come invece vorrebbe l’art. 67 della vigente Costituzione), ma secondo gli “ordini di scuderia” provenienti dalle rispettive segreterie.

Le “vere” decisioni legislative sono quindi adottate non all’interno del Parlamento, ma nelle segreterie di partito. Il Parlamento nazionale non è il luogo dove si “decidono” le leggi. Tutt’al più, è il luogo dove si “ratificano” decisioni prese altrove.

Dopodiché, se il sistema dei partiti è bene strutturato, allora qualche decisione si produce. Se, invece, è strutturato male, allora il sistema dei partiti produce soltanto “reciproche interdizioni”, e allora il Parlamento non decide proprio nulla (tranne che di non decidere affatto).

Ciononostante, di leggi se ne fanno. Anzi, secondo alcuni se ne fanno sin troppe.

La ragione è assai semplice.

Come la natura secondo Aristotele, la politica ha “orrore del vuoto”.

Pertanto, se il Parlamento non è più in grado di fare il suo dovere, altri organi intervengono per rimpiazzarlo.

Ecco perché proliferano i decreti-legge, le deleghe legislative al Governo, i disegni di legge governativi (e, correlativamente, i provvedimenti di delegificazione) e l’attuazione di normative comunitarie (soprattutto delle “direttive”), mentre pochissime sono le leggi di pura e semplice iniziativa parlamentare.

In altri termini, di fronte all’impotenza del Parlamento nazionale, il Governo interviene e, utilizzando tutti gli strumenti che l’ordinamento gli mette a disposizione, gli “si sostituisce” di fatto nell’esercizio della funzione legislativa. Esso diventa, insomma, un “esecutivo con funzioni legislative aggiunte” (del tutto analogamente alla Commissione esecutiva ed al Consiglio dell’Unione Europea). Tale tendenza è accentuata dall’abitudine dei Governi di “deresponsabilizzarsi” scaricando sull’Unione Europea il peso delle decisioni più impopolari.

Non a caso, i governi più efficaci  – nel bene e nel male-  degli ultimi vent’anni sono stati gli esecutivi guidati  – o prevalentemente formati –  da “tecnici”: tanto che non è difficile pensare che gli storici del futuro vedranno i governi Amato, Ciampi, Dini, Monti come un unico “governo lungo” che ha “portato l’Italia in Europa” non conformemente alla volontà del Parlamento, ma, piuttosto, nell’indifferenza di quest’ultimo.

 

Qui entra in gioco la seconda ragione della perdita di potere dei parlamenti nazionali, e cioè il “complessificarsi” di una società nella quale non è più ragionevolmente possibile pensare che un organo come quello parlamentare sia il più idoneo per assumere le “decisioni fondamentali”.

Anzi, in un simile mondo viene persino meno lo spazio per la tradizionale “divisione dei poteri”, com’è sottolineato dal proliferare di “Autorità indipendenti” (come il Garante per l’editoria, l’Antitrust, la CONSOB), che sono contestualmente fornite di potestà legislative, governamentali e giurisdizionali e la cui legittimazione popolare è pressoché inesistente.

Esistono sufficienti indizi, insomma, per ritenere che il Parlamento nazionale non sia più l’unico esclusivo titolare di quello che siamo soliti chiamare il “potere legislativo” né che sia più così assoluto il suo potere di indirizzare il Governo.

A questo punto, risulta più chiaro comprendere perché il Parlamento Europeo non sia formalmente (per quanto, in verità, lo sia sostanzialmente) fornito delle medesime competenze di quelli nazionali e perché  – non malgrado, ma proprio per questo –  sia destinato ad assumere una sempre maggiore importanza sia nel “legiferare” comunitario sia nell’indirizzare l’attività della Commissione esecutiva.

La verità è che il Parlamento Europeo è nato dopo i Parlamenti nazionali e quindi, in un certo senso, nel corso della sua storia è già venuto “scontando” i mutamenti prima sommariamente descritti.

La complessità dei problemi che devono venire affrontati a livello comunitario ha fatto sì che le “leggi” comunitarie  – regolamenti e direttive –  fossero predisposte dal Consiglio e dalla Commissione. In ordine a tali atti, peraltro, il Parlamento Europeo è tutt’altro che impotente. I Trattati di Maastricht, di Amsterdam, di Nizza e di Lisbona hanno infatti previsto e sono venuti via via estendendo una serie di procedure – in particolare, quella di “codecisione” –  che a vario titolo consentono al Parlamento Europeo di far sentire la propria voce, così contemperando l’esigenza di tecnicità e di rapidità  – tipica della funzione di governo –  con quella di “controllo democratico”, che è il proprium dell’istituto parlamentare. Non solo, ma, attraverso i suoi “rapporti di iniziativa”, il Parlamento Europeo può influire seriamente sull’attività legislativa e provvedimentale della Commissione e del Consiglio.

Inoltre, oggi il Parlamento Europeo ha il potere di “investire” il Presidente della Commissione, di “legittimare” quest’ultima con il proprio voto e persino di proporne e votarne la censura.

Anzi, le dimissioni della Commissione Santer nel 1999 hanno sufficientemente dimostrato come una mozione di censura del Parlamento può, anche se respinta (ma respinta in assenza di una maggioranza “politica”), porre fortemente in crisi la Commissione sino a indurla a dimettersi. Proprio questa vicenda  – analoga ad altre verificatesi nella storia politica dell’Occidente –  ci mostra molto bene come il regime parlamentare nasca assai più dal concreto atteggiarsi dei rapporti fra le istituzioni che non dalle astratte previsioni costituzionali.

Certo, i poteri parlamentari a livello europeo sono, per dir così, istituzionalmente “condivisi” con quelli del Consiglio e della Commissione. Ma ciò avviene per il tramite di procedure positivamente normate, e non  – come troppe volte avviene a livello nazionale –  di “ricatti” politici (e a volte personali) e/o di ambigue intese “sotto banco”. Al contrario, esso svolge  – al pari, e forse di più, di altri Parlamenti nazionali –  le due funzioni primarie che la tradizione politica attribuisce a tale organo: legittima (e delegittima) i governi (nel caso europeo, la Commissione) e partecipa in modo determinante al processo di produzione degli atti normativi.

Il Parlamento Europeo
Il Parlamento Europeo

 

Mentre, come s’è visto, i Parlamenti nazionali sono sempre più deprivati di tali funzioni.

In particolare in Italia, meccanismi di legge maggioritari, aggregazioni politiche formate attorno a (ovvero contro) leader aspiranti a diretta investitura popolare, parlamentari per lo più privi di legittimazione personale e quindi “ostaggi” dei partiti politici di appartenenza, rendono il meccanismo della fiducia al governo più un “atto dovuto” che una vera e propria legittimazione politica, e quello della sfiducia un “tradimento” da parte di una frazione insoddisfatta della maggioranza governativa piuttosto che l’incipit della costituzione di una nuova maggioranza.

 

Quindi la verità è un’altra: quelli nazionali sono Parlamenti che vanno perdendo poteri, l’Europeo è un Parlamento che, invece, ne va acquistando.

Raimondo Fassa