Shangai, storia e leggenda

Sono andato per la prima volta a Shanghai nel maggio 1980.

Un mondo totalmente diverso da quello odierno di una Cina assurta a potenza economica e di una Shanghai oggi con sempre nuovi svettanti grattacieli e ritorno di antiche proiezioni sull’Asia.

Dal gennaio di quel 1980, con moglie e figlia di poco più di un anno, risiedevo a Pechino, dove, dopo lunghe pratiche col governo cinese per il mio accreditamento, Indro Montanelli mi aveva mandato quale corrispondente per “il Giornale nuovo”, da lui fondato nel 1974 con altre grandi firme quali Enzo Bettiza, Gianni Granzotto, Cesare Zappulli, Guido Piovene.

Io, allora giovane redattore, facevo parte del gruppo fondatore capeggiato da quei mostri sacri del giornalismo, protagonisti e testimoni della concezione alta e nobile del mestiere e del suo ruolo civile, con attenzione non conformista ai temi nazionali, ma con grandi visioni internazionali, in cui la Cina era fino ad allora sottovalutata.

Per questo Montanelli, davanti alle prime aperture cinesi seguite alla morte di Mao nel 1976, volle aprire l’ufficio di corrispondenza a Pechino, destinandovi me.

Shanghai
Shanghai

 

La Cina si stava appena aprendo al mondo, dopo la lunga chiusura maoista e le disastrose convulsioni della rivoluzione culturale lanciata dal Timoniere.

In tutta la Cina, noi stranieri eravamo alcune centinaia: diplomatici, pochi uomini d’affari, qualche decina di giornalisti.

Per il Capodanno, all’International Club di Pechino riservato agli stranieri, per la prima volta da molti anni si era avuta una serata danzante, che aveva fatto notizia sulle Tv e agenzie di stampa di tutto il mondo.

Shanghai era stata culla della rivoluzione culturale e del suo estremismo ideologico, impersonato dal gruppo di potere formatosi attorno a Mao, la “banda di Shanghai” o “banda dei quattro”: cioè la moglie e altri tre personaggi di vertice, arrestati nell’ottobre 1976 in una resa dei conti a Palazzo un mese dopo la morte del Timoniere.

In questo maggio 1980, anche Shanghai riscopre la sua vocazione cosmopolita, emergendo dal sudario che il sinistro estremismo maoista aveva imposto su di essa.

Dopo mesi di Pechino, che, a parte la Città Proibita e i vialoni di regime, appare come un immenso villaggio di casupole su strade in terra battuta, con mia moglie ci inebriamo dello spirito da metropoli di Shanghai.

Benché cadente e malconcia, nonostante il degrado delle sue architetture di inizio Novecento europeo e d’Europa tra le due guerre, col suo passato di centro internazionale, Shanghai è più “urbana” della capitale, protesa verso l’esterno, storicamente aperta.

Mi rendo conto a questo punto di usare il presente storico per dire di quei giorni lontani in una città oggi profondamene diversa, con la sua selva di bellissimi grattacieli, il treno superveloce (quattrocentocinquanta chilometri all’ora) per l’aeroporto, lo splendido museo d’arte cinese, bellissimo come struttura anche, non solo per i contenuti, il magnifico teatro dell’opera, il quartiere totalmente nuovo di Pudong, con le sue arditezze architettoniche là dove fino a quindici anni fa non c’era niente, e parte del vecchio centro recuperato come quartiere di moda e di movida, il lungofiume ampliato e ingentilito.

Resterò allora sul presente storico, per rendere meglio l’esperienza in quella primavera del 1980 in un mondo che non c’è più.

 

Il Peace Hotel, all’angolo di Nanjing Road sul lungofiume, il mitico Bund, conserva vaghi segni di stile e atmosfere di tempi migliori, di quando era il  Cathay Hotel, calamita tra le due guerre per alta e avventurosa società internazionale, il “transoceanic set”.

 

Il termine Bund con cui si indica il lungofiume sulla sponda occidentale del Huangpoo, su cui attraccavano navi da tutto il mondo, secondo molti viene dal farsi, una lingua persiana, giunta in Estremo Oriente filtrata attraverso Baghdad per indicare le sponde del Tigri.

Dal Medio Oriente profondo e oppresso di storia, con successive corruzioni e contaminazioni anglo-tedesche, il termine è arrivato a Shanghai nell’Ottocento con famiglie ebree di Baghdad che hanno poi segnato la città: dapprima i Sassoon, seguiti dai Kadoorie, che accumularono immense ricchezze, oltre che con imperi commerciali, con grandi realizzazioni immobiliari sul lungofiume, il Bund, appunto.

Qui sorge anche, circondato da un bel giardino, il vecchio e imponente consolato britannico, trasformato in negozio dell’Amicizia, riservato esclusivamente agli stranieri, in cui i cinesi non possono entrare.

Non c’è guida o interprete che non sottolinei con sdegno che fino al 1949 prima dell’avvento del regime comunista, sui cancelli del giardino del consolato un grande cartelio intimava: “Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi”.

Per una beffa della storia, adesso è il regime comunista a impedire l’ingresso ai cinesi.

Pesa ancora il modello sovietico nello steccato di regime verso gli stranieri, innestato su una diffidenza storica cinese verso gli occidentali, “diavoli dal naso lungo”.

 

Sulla sponda opposta del fiume, davanti al Bund, solo casupole di un villaggio di pescatori.

Pudong.

Sarà così a lungo, fino a metà degli anni Novanta, quando comincia lo sviluppo frenetico.

In poco tempo, Pudong diventa una selva di grattacieli, come del resto tutta la metropoli.

In questo maggio 1980 in cui esce con vigore dalla gabbia nella quale è stata repressa, vibrano su Shanghai recuperi del passato e promesse per il futuro.

Al ristorante del Peace Hotel, la sera gli stranieri possono anche ballare se hanno un partner: un complessino jazz, in cui il più giovane del gruppo è vicino ai settant’anni, suona motivi americani degli anni Trenta e primi Quaranta.

Non è snobistico gusto retrò, ma straziante ripresa da dove nel ’49 avevano dovuto smettere, non sanno nulla di quel che è venuto dopo.

E’ un tuffo in un’atmosfera anni Trenta durante i quali Shanghai è stata perla e inferno della Cina, metafora di un intero mondo: una città di contrasti estremi, di lusso sconfinato e di miseria indicibile, di piaceri senza limiti e di intrighi internazionali, in cui si possono costruire sconfinate fortune con gli affari più oscuri su cui nessuno pone domande, dal potere politico frammentato e invisibile, sotto il controllo di gangster, signori della guerra, funzionari corrotti e occidentali intoccabili grazie ai privilegi delle concessioni, che li sottraggono alla giurisdizione cinese, e nelle quali l’ordine è garantito dalle guardie sikh di Sua Maestà Britannica, con turbante, barba e manganello, e dalla gendarmeria francese.

Shanghai
Shanghai

 

Shanghai era il frutto di concessioni extraterritoriali sulle quali le potenze europee esercitavano sovranità escludendo quella della Repubblica Cinese, come eredità delle guerre coloniali dell’Ottocento.

Nel sistema delle concessioni internazionali, naturalmente facenti capo alla Gran Bretagna, la Francia si era preservata una propria concessione, scicchissima allora, socialmente e urbanisticamente.

Per le potenze europee essere presenti a Shanghai era di grande importanza.

Da qui, venendo dall’oceano, si attracca direttamente in centro città, sul Bund, la sponda del fiume Huangpoo su cui vanno e vengono dall’entroterra  le giunche cariche di mercanzie.

Da qui, soprattutto, risalendo dal Huangpoo lo Yangtze, si arriva a Chongqing, maggior centro del Sichuan, cuore della Cina fonda.

Risalire lo Yangtze fino a Chongqing è impresa ardua perché a valle della città il fiume diventa vorticoso scorrendo impetuoso fra tre strette e pericolose gole: superare le tre gole è nella psiche collettiva cinese una grande prova.

Gli europei le superano con le loro moderne navi, mercantili e militari, dimostrazione  di potenza che suscita meraviglia.

Unità navali militari di vari paesi sono costantemente presenti a Shanghai, a protezione dei commerci con la Cina interna e  quella costiera.

Anche l’Italietta, entrata a inizio Novecento nel ‘concerto europeo’, ottenuta la piccola concessione di Tiensin tiene a mostrarsi a Shanghai: la cannoniera Carlotto, affiancata da altre che si alternano, da Tiensin è spesso colà, a esibire bandiera e marcare presenza, e più volte risale lo  Yangtse.

Grazie al sistema delle concessioni, Shanghai era l’unico grande e autonomo luogo al mondo per entrare nel quale non era necessario un visto.

Ed era quindi anche crocevia di spie, agenti segreti, cospiratori, rivoluzionari, di disperati in fuga da persecuzioni in casa loro nell’età dei totalitarismi.

Qui fu fondato il partito comunista nel 1921.

Nei paesi europei, i partiti comunisti nacquero da scissioni, incoraggiate da Mosca, nei tradizionali partiti socialisti che propugnavano politiche riformiste invece che rivoluzione.

In Cina il partito nacque su diretto intervento sovietico, con agenti del Comintern attivi nella fondazione e poi, negli anni successivi fino alla vittoria di Mao nel 1949, sulle scelte politiche.

Alla riunione di fondazione, in una casetta nella concessione francese, oltre agli uomini mandati da Mosca, parteciparono dodici persone, delegati in rappresentanza di cinquantasette rivoluzionari.

Mao non c’era.

E Shanghai fu teatro delle prime lotte operaie, stroncate spietatamente da Chiang Khai-shek, succeduto alla testa del Guomindang, partito della nazione, a Sun Yat Sen, l’idealista di stampo mazziniano, alla sua morte nel 1925.

Nel 1927 in città si ebbero scioperi e dimostrazioni di massa di operai cinesi.

La repressione da parte di Chiang fu durissima, con raccapriccianti decapitazioni per le strade.

 

A Shanghai ha agito a lungo la leggendaria spia sovietica Richard Sorge, prima di trasferirsi a Tokyo, da dove inascoltato informava il Cremlino sui preparativi di attacco di Hitler all’Unione Sovietica nel 1941, finché fu scoperto e impiccato dai giapponesi.

Ed è a Shanghai che, a missione compiuta con successo, riparano i due maggiori responsabili dell’operazione per l’uccisione di Lev Trotskij, avvenuta il 21 agosto 1940 nella sua casa nei sobborghi di Città del Messico: Leonid Eitingon e Caridad Mercader.

Lui, alto ufficiale dello spionaggio sovietico già operativo a Shanghai e poi nella guerra civile spagnola; lei, comunista spagnola, madre di Ramon Mercader, l’agente che ha materialmente compiuto l’assassinio, uccidendo con un colpo di piccozza in testa il vecchio rivoluzionario da cui Stalin si sentiva ossessionato.

Ramon fu catturato, e passò vent’anni in carcere, da dove scontata la pena andò poi in Unione Sovietica.

Sua madre e Eitingon quel giorno lo aspettavano a poca distanza per portarlo in salvo dopo aver assolto il suo compito di assassino.

La sua cattura fece cambiare i piani, e riuscirono a dileguarsi senza essere notati da nessuno.

Riparati prima a Cuba, poi negli Stati Uniti, raggiunta con una nave di linea da San Francisco Shanghai, da qui riuscirono infine ad arrivare in Unione Sovietica.

 

Ma non solo covo di spie è stata Shanghai.

Per il suo status è stata anche rifugio per migliaia di perseguitati e disperati.

Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 vi hanno trovato asilo i russi in fuga dalla Manciuria di stampo zarista sotto attacco bolscevico, e dalla Russia europea.

Con l’ascesa del nazismo in Germania, migliaia di ebrei che riescono a uscire ma senza poter ottenere il visto d’ingresso da paesi europei o dagli Stati Uniti, puntano su Shanghai, l’unico posto in cui possono tranquillamente scendere dalla nave senza che nessuno chieda loro scartoffie.

In pochi anni, dal ’32 al 38, ne arrivano circa ventimila da Germania e Austria, Cecoslovacchia.

Quasi tutti vi arrivano transitando per l’Italia, imbarcandosi a Trieste o Venezia: il Lloyd Triestino ha le migliori e più veloci linee marittime dall’Europa per l’Estremo Oriente, e in quegli anni riserva una quota di posti e a condizioni favorevoli proprio agli ebrei in fuga.

L’Italia non ancora legatasi a Hitler e non ancora precipitata nella vergogna delle leggi razziali, concede senza difficoltà visti di transito per imbarcarsi a Trieste o Venezia, e diventa così con la sua storica compagnia di navigazione il nodo nevralgico sulla via della salvezza.

 

La capitale cinese in quegli anni è Nanchino, ma Shanghai è tutta vita, segnata da un grande cosmopolitismo in cui confluiscono vizi e virtù,  spregiudicati imprenditori, avventurieri, grandes dames, cortigiane e puttane, belle donne di incerto passato e precario futuro, ragazze che vivono per amare e amano per vivere, oppiomani e gangster, borghesia cinese compradora con sullo sfondo le miserabili masse cinesi.

E’ una metropoli in cui escono quotidiani e riviste in inglese, in francese, in russo, e naturalmente in cinese; vi fiorisce l’industria cinematografica, e nell’ambiente del teatro e del cinema si fa strada un’attrice, Lan Ping ( Mela Azzurra), destinata a diventare più tardi famosa in altri campi col nome di Jiang Qing.

Ha interpretato film di second’ordine, ma poi ha un grande successo recitando a teatro la parte di Nora in Casa di Bambola, di Ibsen.

Legata a un intellettuale comunista, è scaltra nello scegliersi come amanti registi di grido o attori importanti.

Nel ’37 lascia Shanghai e grazie al suo amico che ha un fratello nella nomenklatura comunista, va a Yanan, dove Mao, sfuggito a Chiang Khai-shek con la lunga marcia,  ha stabilito la sua base e centro di comando su una vasta regione.

Riesce ad avvicinare il futuro Timoniere, che a quarantacinque anni ha quasi il doppio della sua età.

Non ha molte difficoltà nel sedurre un uomo che, come si è saputo più tardi, è ossessionato dal sesso.

Per lei, raffinata e astuta, di modi urbani nello spartano e contadinesco ambiente di Yanan dove si viveva nelle caverne, Mao lascia la moglie da cui ha avuto cinque figli e con cui ha finora condiviso difficoltà e patimenti.

Gli altri dirigenti comunisti diffidano di lei, la considerano intrigante e opportunista, convincono Mao a impegnarsi e farla impegnare a che lei non si impiccerà in affari politici, né che si mostrerà in pubblico accanto a lui ufficialmente.

Lei si rifarà su di loro con la rivoluzione culturale nel 1966, di cui sarà maggior esponente, con la quale assume ruolo pubblico  e politico diventando membro del Politburo: li perseguiterà inflessibilmente, e le sue rivalse punitive si indirizzeranno anche su attori e registi che secondo lei negli anni di Shanghai non l’avevano valorizzata, o che l’avevano conosciuta , diciamo così, troppo bene.

Shanghai in quegli anni Trenta vanta una università prestigiosa,  la Fudan, Aurora, dei Gesuiti, dove si formano personaggi che saranno poi alti esponenti del partito comunista.

E’ una città con club esclusivi, come lo Shanghai Club, un intero, imponente palazzo sul Bund, che vanta il più lungo bancone di bar al mondo, oltre cento piedi, circa trentacinque metri; e il Club Sportif Français, o French Club, tra le eleganti Avenue Joffre e Rue Cardinal Mercier, circondato da un grande parco, con grande salone da ballo, piscina olimpionica, un bowling in prezioso palissandro con decine di addetti in uniforme a rialzare i birilli riportando a mano le grandi bocce ai giocatori; con l’ippodromo, a cui per le corse si va osservando in abiti e modi l’etichetta come ad Ascot; davanti all’ippodromo sorge il Park Hotel, ardita costruzione di ventidue piani, allora e fino al 1952 l’edificio più alto dell’Asia.

Nella Shanghai di allora, nei locali di lusso l’oppio viene servito su vassoi d’argento come fosse thè; è una città con centinaia di locali di piacere, in cui tutto è a portata di mano a poco prezzo, in primo luogo ragazze e ragazzi di ogni gruppo etnico asiatico e occidentale.

Una Sodoma e Gomorra orientale, con i moderni comfort occidentali, grandi alberghi, come appunto il Cathay, in cui si incrociano Jean Cocteau, Noel Coward, Charlie Chaplin, Wallis Simpson prima che conosca il principe di Galles che a lei sacrificherà il trono, Christopher Isherwood e Wystan Auden; e frotte di russe che, prima della rivoluzione a cui sono scampate con la fuga, erano tutte principesse o almeno contesse.

Come quella che, secondo un aneddoto, nella lobby del Cathay Hotel accarezzava il suo chihuahua, sospirando “E pensare che anche tu, prima della rivoluzione bolscevica, eri un alano”.

Città di tante vite miserabili e di tante esistenze gaudenti ma provvisorie, in un mondo che non sa di essere sul Titanic.

 

In questo inizio 1980 è stato riaperto, per gli stranieri, un santuario della città di prima della rivoluzione, il French Club appunto, tempio di snobismo e raffinatezza, di vita sociale, nella Shanghai delle concessioni.

Chiuso alla nascita della Repubblica popolare, riservato per decenni solo a Mao e alle sue amanti, o alla moglie.

Ora aperto ai visitatori.

Una bella costruzione di stile coloniale, immersa nel verde, con piscina olimpionica coperta, foresteria con alcune vaste suites e grandi stanze dai bagni malridotti.

Nell’accogliente sala del ristorante, con preziose boiseries, vi sono anziani camerieri in smoking.

La Cina intera veste ancora come nell’età maoista, in sterminata foggia, o uniforme, proletaria: uomini e donne in stazzonati pantaloni e tuta alla Mao, in cotone e due soli colori, blu o verde olivo.

E qui ecco i camerieri in smoking come illo tempore: con tutta evidenza sono abiti molto lisi, ma pantaloni in perfetta piega, camicia candida, giacche perfettamente stirate, papillon e fascia nera sulla vita inappuntabili; sono abiti chissà come salvati nella furiosa ondata proletaria e proletarizzante,  gelosamente nascosti e con grande rischio custoditi per tanto tempo, da chissà quali segreti nascondigli ora ripescati.

Diversamente da tutti gli altri ristoranti cinesi finora conosciuti, poco più che modeste mense, con tavoli dalle tovaglie macchiate, e dove il personale si mostra immusonito e sgarbato come per renderti tutto sgradevole, qui i camerieri venuti da epoca e modi lontani ti accolgono con festoso sorriso e lieve cenno della testa; salutando in francese, accompagnano l’ospite a tavoli perfettamente apparecchiati, con tovaglie candide e di fresca stiratura mai viste finora a Pechino, e porgono il cartoncino del menù.

La lista è tanto scarna quanto raffinato e surreale è l’ambiente.

Tutt’intorno c’è la Shanghai in totale degrado, con ancora aperte le ferite della rivoluzione culturale con la sua lotta contro una borghesia che era già stata in precedenza sterminata.

La attuale, confortevole piacevolezza in questo ambiente dà la sensazione di anacronistica sopravvivenza, ma sapendo della lunga chiusura e della recente riapertura del Club, prende il sopravvento il senso positivo.

Non sopravvivenza, ma riscoperta del gusto, estetico e del palato.

Il menù è senza scelta, ma tutto un raffinato recupero dei vecchi tempi: soupe à l’oignon, supreme de faisan, soufllé à la vanille.

Perfettamente preparati da un venerando, anziano chef dall’ottimo francese, tornato al suo regno, come i camerieri, da chissà quali vicissitudini, e che, lusingato dai complimenti, si lascia andare: ” Il soufflé lo potremmo fare anche al Grand Marnier, se lei portasse il Grand Marnier”.

Intanto, bisogna portarsi il vino.

Il vecchio, glorioso ristorante del Club, infatti, non ha vino.

Il vino, lo si deve andare a comprare in un negozio per stranieri qui di fronte.

Tempo una decina d’anni, e il Club Français sarà incorporato nel grattacielo di un grande albergo giapponese, che ne salverà solo la facciata.

 

Nella Shanghai perla e inferno della Cina si muove a suo agio negli ambienti internazionali una coppia eccezionale: Galeazzo Ciano e sua moglie, Edda Mussolini.

Lui ha servito come diplomatico nella Legazione a Pechino nel 1927, e poi, rientrato in Italia, ha sposata Edda, tornando quale console generale a Shanghai con lei, subito dopo il matrimonio, nel 1930, restandovi fino al 1933.

Belli, spavaldi, gaudenti e anticomformisti, figlia e genero di una personalità che svetta nella politica internazionale, sono i beniamini della Shanghai cosmopolita e attenta alle gerarchie del potere sulla scena mondiale.

Dietro il fare mondano e fatuo, Ciano serba una stoffa diplomatica e di carattere, come mostrerà nella dignità con cui affronterà il plotone di esecuzione a Verona nel gennaio 1944.

Intanto adesso, grazie a lui, che poi da ministro degli Esteri continuerà ad avere molta attenzione per la Cina, si ha una fase di grande sviluppo dei rapporti italo-cinesi, favorita dall’ascendente che Mussolini e il fascismo, espressione di una delle potenze vincitrici della grande guerra, esercitano nel mondo.

 

Chiang Khai-shek ha assunto per sé il titolo di “Generalissimo”, all’italiana, e su sua moglie, l’ambiziosa e scaltra Soong Meiling, di ricchissima famiglia, educata in esclusivi college e università americane,  si riverbera nei gossip mondani e politici l’appellativo di “madamissima”.

Come pilota del loro aereo personale hanno un ufficiale dell’Aeronautica Italiana, il capitano Enrico Cigerza.

Esperti italiani vengono invitati da Chiang Khai-shek, leader della Cina dopo la guida morale di Sun Yat Sen a cui si richiama,  per la modernizzazione del paese.

Due italiani, Gibello Socco e  Evaristo Caretti, sono chiamati rispettivamente alla direzione del ministero delle Ferrovie e delle Poste; Alberto De Stefani, già ministro delle Finanze con Mussolini, viene invitato a riorganizzare il sistema finanziario; un giurista, Attilio Lavagna, a redigere il codice penale.

Aumentano gli scambi commerciali fra i due Paesi, raggiungendo livelli che allarmano Inghilterra e Francia.

Ciano preme anche per più stretti rapporti politici e militari.

Riesce a far stabilire dal Loyd Triestino una regolare linea di navigazione fra Italia e Shanghai, che avrà grande successo internazionale, e sulla cui rotta si alternano due moderne unità transoceaniche, il Conte Biancamano e il Conte Rosso.

Quest’ultimo, nel suo primo viaggio, stabilisce il record compiendo la traversata Trieste- Shanghai in soli ventitre giorni.

 

La linea del Loyd Triestino si impone rapidamente quale maggior collegamento diretto fra l’Europa e Shanghai,  e si rivela risorsa preziosa per gli ebrei in fuga dalla Germania diretti a Shanghai per la salvezza.

Shanghai sarà poi occupata dai giapponesi, ma sotto di loro non subiranno persecuzioni specifiche.

I giapponesi non facevano sottili distinzioni: per cui Shanghai è l’unico territorio di un paese dell’Asse nel quale gli ebrei non furono perseguitati.

 

Al Biancamano subentrò poi il Conte Verde, che con la guerra resterà intrappolato a Shanghai.

Il Biancamano, che era stato spostato sulle linee  per l’America del Nord e poi del Sud, era tra le più lussuose delle nostre navi passeggeri.

All’inizio della guerra restò ormeggiato a Cristobal, in Panama.

Quando la guerra si allargò agli Stati Uniti, gli americani requisirono la nave, trasformandola per il trasporto truppe, e la ribattezzarono Hermitage.

Nel 1947 la restituirono all’Italia.

L’unità fu sottoposta a grandi lavori di rifacimento con nuovi allestimenti interni, arricchita con lavori di Campigli, Sironi, altri artisti.

Riebbe il suo nome originario, e nel 1948 tornò in mare quale prima unità passeggeri della rinnovata marina mercantile sulla linea per New York, restando in servizio fino al 1960.

Il Conte Rosso, all’inizio della guerra, fu adibito a trasporto truppe per la Libia.

La sera del 24 maggio 1941 fu affondato da un sommergibile inglese al largo di Siracusa.

Altro destino per il Conte Verde.

Allo scoppio della guerra, il 10 giugno 1940, era appena arrivato a Shanghai, a quell’epoca da tempo occupata dai giapponesi, e vi restò, non potendo affrontare la traversata per il ritorno.

Dopo che il conflitto si allargò agli Stati Uniti, fu utilizzato per una missione umanitaria organizzata dalla Croce Rossa con negoziati tra Stati Uniti e Giappone, tramite la Svizzera, per lo scambio di diplomatici e civili delle rispettive nazionalità rimasti bloccati in Cina e Giappone.

Secondo gli accordi, il Conte Verde, godendo dell’immunità concordata dai belligeranti, trasportò seicento tra diplomatici e civili americani da Shanghai a Lorenço Marques, attuale Maputo, in Mozambico, allora colonia del neutrale Portogallo, con una traversata dal 29 giugno al 22 luglio, tornando poi a Shanghai stessa.

Al momento dell’armistizio l’8 settembre 1943, la nave è ormeggiata proprio davanti allo Shanghai Club, sul Bund.

Poco distante vi sono altre due nostre unità militari: le cannoniere Lepanto e Carlotto, da tempo in Cina.

Poche ore dopo la notizia della resa, appresa il 9 settembre per il fuso orario in anticipo rispetto a Roma, ricevuto da Supermarina l’ordine di raggiungere porti neutrali o anglo-americani e di auto-affondarsi se impossibile farlo, i comandanti delle due unità, De Leonardis per la Lepanto e Morante per la Carlotto, decidono l’autoaffondamento.

Alla loro decisione si unisce il comandante del Conte Verde, Ugo Chinca, per non far cadere in mano ai giapponesi il suo superbo transatlantico.

Tra gli equipaggi si riproducono a Shanghai, a migliaia di chilometri di distanza, i dilemmi atroci da cui scaturisce in Italia la guerra civile.

L’autoaffondamento nel centro di Shangai, oltre a provocare seri intralci ai giapponesi e ai loro movimenti navali in città, è un atto di scelta politica, di fedeltà al re.

I giapponesi saranno spietati, rinchiudendoli in carcere e in duri campi di concentramento, con gli ufficiali e quella parte degli equipaggi che, dopo l’autoaffondamento, confermano fedeltà al re rifiutandosi di aderire alla Repubblica Sociale.

Ma le divisioni tra i nostri uomini lontani non sono minimamente paragonabili, non si dirà alle atrocità, ma neanche alle asprezze della guerra civile in Italia.

 

Con la fine del conflitto mondiale, finisce anche la Shanghai perla e inferno della Cina, mentre scoppia la guerra civile tra comunisti e nazionalisti , capeggiati da Mao e Chiang Khai.-shek.

Nel 1949 su ciò che resta di quella Shanghai si abbatte la rivoluzione comunista.

Le ultime vestigia sono spazzate via dalla rivoluzione culturale.

Deng Xiaoping, artefice delle riforme che hanno trasformato la Cina, a lungo guarda con sospetto a Shanghai, condizionato dalla sua storia di radicalismo ideologico sotto Mao, che è stato in realtà solo un soffio passeggero paragonato allo spirito storicamente intraprendente e cosmopolita della città.

Solo nel 1991 il vecchio Deng dà il via al rilancio di Shanghai.

La quale recupera velocemente il tempo perduto, con una crescita superiore al resto della Cina, testimoniata dal suo impressionante sviluppo urbanistico: oggi come ieri, senza più stranieri privilegiati, ma con l’energia alimentata da un passato grande e terribile, svetta sulla Cina e si protende verso l’Asia e il mondo.

Fernando Mezzetti