Frederick Jackson Turner, la Frontiera e il Western

1893, l’American Historical Association riceve alla World’s Columbian Exposition, a Chicago, un documento a firma Frederick Jackson Turner, in seguito insegnante all’Università del Wisconsin e ad Harvard, intitolato ‘Il significato della frontiera nella storia americana’ (‘The Significance of the Frontier in American History’).

Il testo è quello sviluppato in una conferenza che il grande storico e critico Robert Hughes, nel suo ‘La cultura del piagnisteo’ (‘The Culture of Complaint’, 1993) non esiterà a definire “epica”.

A ben guardare, Turner, nel trattare del tema, è nella scia – per non dire che dal precedente tragga decisamente ispirazione – di John O’Sullivan, intellettuale e giornalista democratico, che vari decenni prima, nel mentre negli anni Quaranta dell’Ottocento gli Stati Uniti si affacciavano sulla costa pacifica del continente, aveva per primo parlato di ‘destino manifesto’ in particolare, per il vero, riferendosi alla necessità, a suo modo di vedere, di annettere all’Unione il Texas.

(A proposito dell’ingresso negli USA dello ‘Stato della stella solitaria’, si leggano i miei scritti dedicati all’annessione texana, al presidente John Tyler e alle giuste rimostranze messicane conseguenti, in ‘Americana’, in ‘La provvidenza divina e gli stati Uniti d’America’ e in ‘Elementi di storia politico istituzionale americana’, tutti disponibili in edizione cartacea ma anche in ‘Bibliografia, Opere scaricabili’, nel sito www.maurodellaportaraffo.com)

Frederick Jackson Turner
Frederick Jackson Turner

Il concetto del ‘destino manifesto’, dipoi, nel tempo, è andato assumendo un significato decisamente più lato: gli Stati Uniti, appunto nel loro destino, direi nel loro dna, hanno (avrebbero?) l’assoluto e indiscutibile impegno di portare, diffondere nel mondo la democrazia.

La Frontiera, sottolineava Turner nel citato testo, aveva creato la libertà “spezzando i limiti dell’abitudine, offrendo nuove esperienze e promuovendo nuove istituzioni e attività.”

Come in altre occasioni ho sottolineato, il grande scrittore premio Nobel inglese Rudyard Kipling, nella un tempo celeberrima poesia ‘Il fardello dell’uomo bianco’ (‘The White Man’s Burden’, 1899) – recante come sottotitolo ‘Gli stati Uniti e le Filippine’ in quanto composta a seguito del ‘Trattato di Parigi’ che, ponendo fine al confronto armato (‘Guerra Ispano Americana’) per Cuba,  vedeva la soccombente Spagna concedere agli USA il dominio appunto sulle Filippine – quasi seguendo O’Sullivan e Turner, sostanzialmente (o almeno in cotal modo il suo poetare venne inteso) trattava della necessità da parte dell’Unione statunitense di sostituirsi all’esausta Gran Bretagna nel recare la civiltà euro americana, e quindi la democrazia come in quell’ambito intesa, a popoli e terre.

(Un esempio di ‘esportazione’ della civiltà occidentale in India: Sir Charles Napier, primo governatore inglese del Punjab, da poco insediato, decise di combattere il ‘sati’ e cioè l’antica tradizione locale che prevedeva che le vedove fossero bruciate vive sulla pira funeraria del compianto marito. I capi locali gli dissero che si trattava di un rito la cui origine si perdeva nella notte dei tempi e che, di conseguenza, non era proponibile un suo abbandono.

Per tutta risposta, Napier fece erigere una forca nei pressi di una pira, dicendo: “Rispetto le vostre usanze. Continuate, prego. Sappiate che è nostra usanza, tuttavia, impiccare coloro che bruciano vive le vedove”.)

Si dovrà attendere il 1961, anno di pubblicazione del clamoroso e stravolgente saggio ‘I dannati della terra’ (‘Les Damnès de la terre’) di Franz Fanon la cui pregnante prefazione è opera di Jean Paul Sartre, perché il processo di decolonizzazione allora in corso, le rivendicazioni terzomondiste, trovassero la loro ‘Bibbia’.

E’ da allora che il mondo concettuale come concepito da O’Sullivan Turner e Kipling  mostra le prime crepe per successivamente sgretolarsi.

(Per il vero, negli Stati Uniti, sotto traccia, non abitualmente proclamato, il concetto ‘sullivaniano/turneriano’ ha ancora buona presa malgrado il fatto che in più occasioni gli USA, intesi a portare la democrazia nel mondo o credendo di farlo, siano andati incontro a sonore sconfitte sia sul piano militare che su quello politico.)

E’ questo il momento dell’assunzione, praticamente senza reazione alcuna, da parte dell’uomo bianco, accusato di ogni sfruttamento e di ogni nefandezza, di ‘tutte’ le responsabilità.

E’ il momento delle scuse ‘bianche’, in ginocchio o pressappoco, per qualsiasi comportamento del passato comunque ritenuto riprovevole e, da parte della Chiesa, perfino con riferimento alle Crociate.

E’ dai primi Sessanta del Novecento che si impone il clima, tuttora globalmente imperante, che tanto piace ai mentecatti del ‘politically correct’ e alle ‘anime belle’, in una parola, ai ‘fessacchiotti’ che comandano, ‘democraticamente’ per carità, per ogni dove o quasi.

 

Possiamo esaminare il predetto mutamento anche da un punto di vista decisamente particolare: guardando, cioè, al cinema western ‘classico’, quello con i pellirosse, e confrontando due pellicole realizzate l’una ‘prima della rivoluzione’ dal mitico John Ford (presentandosi nel cominciare un proprio intervento in una affollatissima e tumultuosa assemblea di cineasti che protestavano contro la dipoi denominata ‘Caccia alle Streghe’, il grande regista, peraltro trascurando il suo operare anche in altri campi cinematografici, disse semplicemente: “Mi chiamo John Ford e faccio western”.) e la seconda quasi trent’anni più tardi da Martin Ritt, un film maker e, a Broadway, un regista teatrale, assolutamente ‘giusto’, del tutto adatto per idee ed opere a rappresentarla.

Parlo del fordiano ‘Ombre rosse’ (‘Stagecoach’, 1939) – sceneggiato da Dudley Nichols sulla base di un racconto, ‘Stage to Lordsburg’, a firma Ernest Haycox a sua volta ispirato da ‘Boule de suif’ di Guy de Maupassant – e di ‘Hombre’ (‘Hombre’) – ricavato da Irving Ravetch e Harriel Frank jr da un testo di Elmore Leonard – che il citato Ritt realizzò nel 1967.

Semplificando, in ‘Ombre rosse’ gli indiani, ‘cattivi’ tout court, attaccano furiosamente e fino all’arrivo della cavalleria la diligenza e i ‘visi pallidi’ in viaggio che la popolano, mentre in ‘Hombre’ un ‘indiano/bianco’, un disprezzato ‘mezzosangue’, agendo da pellerossa (Paul Newman, nei panni di John Russell, dopo un’azione per molti versi violenta, dirà “In questo frangente, ho agito da bianco”) e sacrificando la propria vita, salva un altro gruppo di persone in larga parte certamente non meritevoli di un simile sacrificio.

Due assai differenti ‘momenti’.

Due contrastanti visioni.

Due diverse generazioni.

Quella di John Ford, nel solco del ‘destino manifesto’ e col mito della ‘frontiera’, che vedeva nei pellirosse un nemico comunque e sempre da eliminare (e non va dimenticata la scena del successivo capolavoro fordiano ‘Sentieri selvaggi’ – ‘The Searchers’, 1956 – che vede il protagonista Ethan Edwards/John Wayne sparare forsennatamente ai bisonti perché uccidendoli intendeva sottrarre carne agli indiani), mai neppure interrogandosi sulle ragioni che portavano i nativi americani a contrapporsi.

Quella di Martin Ritt, dubitosa se non già convinta della ‘cattiveria’ dell’uomo bianco, del buon diritto degli indiani alla difesa, di una loro quasi fanciullesca innocenza violata senza pietà dai ‘visi pallidi’.

Non v’è chi non veda, non v’è chi non noti come dipoi, nel giro di pochi anni, il western classico come sopra delineato decada: i ‘tempi’ maturati non lo giustificano più.

(Nei western di Sergio Leone, per inciso, come in genere in tutti gli ‘spaghetti-western’, i pellirosse sono sostanzialmente assenti e sia l’uomo ‘dal cappello bianco’ – il ‘buono’ – che quello ‘dal cappello nero’ – il ‘cattivo’ – sono rigorosamente ‘visi pallidi’.)

P.S.  Sarà opportuno dedicare in futuro al 1961 una particolare riflessione.

Non è solo l’anno nel quale appare il clamoroso sopra ricordato ‘Les Damnès de la terre’.

Infiniti altri gli accadimenti (alcuni dei quali ho trattato nel mio ‘Il terzo quarto 1951/1975’, pubblicato nel 2010 e consultabile nel sito citato) datati appunto 1961 che hanno storicamente inciso.

Mauro della Porta Raffo