Obama, per la penna di Paolo Granzotto

Nel 2011, pubblicando il saggio ‘Americana’ (consultabile e scaricabile nel sito www.maurodellaportaraffo.it), ho chiesto a un certo numero di amici un giudizio su Barack Obama, il presidente in carica che si apprestava a chiedere un secondo mandato. Di seguito, le interessanti righe vergate l’11  settembre 2011 da Paolo Granzotto. Ritengo utile rileggerle oggi, nel mentre Obama, tra infinite difficoltà, occupa, inadeguatemente, per la seconda volta lo scranno presidenziale – MdPR

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Il caso di Barack Hussein Obama – monumentalizzato e pressoché universalmente idolatrato a scatola chiusa e cioè ancor prima che potesse dar conto di sé nelle vesti di Presidente degli Stati Uniti – è unico nella storia del leaderismo mondiale e dunque del potere.

Cadono in errore i molti che apparentano la saga di Obama a quella John Kennedy. Quest’ultimo dovette infatti aspettare la morte per accedere all’iperuranio delle figure mitiche: e proprio le circostanze della sua morte – colto nel fiore degli anni, al fianco della sua Jackie e per mano, così si vuole credere, delle oscure forze della reazione – contribuirono in modo determinante al quella laica beatificazione che non ostante la popolarità gli mancò in vita.

Per comprendere appieno il fenomeno (qui inteso come ‘apparenza’) unico che ha nome Barack Obama è necessario ricondursi ad altri due fenomeni (qui, invece, nel senso di ‘manifestazioni).

Il primo è l’abbassamento del ‘livello di attenzione’ e della ‘soglia della concentrazione’, carenze che colpiscono principalmente le nuove generazioni contagiando, però, larghissima parte di quanti anagraficamente appartengono alle vecchie.

Tali cali cerebrali sono conseguenza del predominio culturale dell’immagine, della overdose di comunicazione e della disponibilità di nozioni e informazioni la cui portata è tale da renderne la cernita e il controllo un impegno intellettuale lungo e affaticante: poco adatto, pertanto, in tempi dominati dal facile e dall’immediato.

Il risultato è il pensiero leggero, volatile, che ha finito per modellare una società circiterista o, per dirla in parole povere, superficiale, pressappochista, del tutto avulsa dalla razionale pratica del dubbio e della riflessione.

Il secondo fenomeno è antico come il mondo: l’attrattiva umana per il mito, l’idolo o, come oggi s’usa dire, l’icona, che spesso si sovrappone all’intima eppur incalzante domanda di leviatani.

Dell’uomo forte che pensa, decide e fa miracoli per tutti.

Al momento della sua discesa in campo, Barack Obama rispondeva in tutto o quasi alle richieste di una società ‘facilista’ e suggestionata dalle aspirazioni oniriche – l’I have a dream è un mantra universale – che la governano.

Il sembiante giovanilista ed elegante del candidato Obama, la sua indubbia intelligenza, un certo magnetismo e un sicuro charme (vocabolo che non a caso trae direttamente da carisma), le sue movenze e il suo gestire, il suo essere ‘cool’ (che la prosaica espressività popolare traduce in ‘figo’, brutta parola ma altre non ce ne sono); la sua negritudine posta a simbolo di un plateale ‘change’ – un coloured nel tempio Wasp della Casa Bianca – e di un possente richiamo ai valori della società multiculturale e multietnica che con l’avvento di Obama avrebbe dovuto compiersi come per incanto – il ‘tocco magico’ del quale parleremo -, hanno contribuito al formarsi di quella immagine che nella civiltà dell’apparire si trasforma nell’essere.

A completarla, l’immagine, dandole la forza necessaria per elevarsi e primeggiare è stato poi l’eloquio, l’oratoria messianica, tonda e demagogica unita all’insistente richiamo al luogo comune, alle svenevolezze del pensiero collettivo, alle formule stereotipate dei diritti, del dialogo, del confronto, della tolleranza, della pace.

Dell’“Yes, we can!”, sì, noi possiamo.

Se sarò io a indicarvi il cammino, possiamo tutto.

D’altronde, nella sua travolgente campagna elettorale su cose concrete, politiche, programmatiche, Barack Obama evitò accuratamente di impegnarsi.

Restò saldamente sul generico, ma un generico ispirato, alato e profetico, capace dunque di mantener viva l’intensa aspettazione di qualche grande rivolgimento (il ‘change’).

Da smaliziato demagogo, egli si guardò bene dal promettere di cambiare il mondo, dapprima affratellandolo e poi liberandolo dal giogo della guerra, della povertà e della fame.

Non promise di rendere l’America più giusta, più aperta alle esigenze della moltitudine delle minoranze, più politicamente corretta.

Lasciò che fossero i suoi adoratori ad attribuirgli quel vaste programme.

(A dire il vero, una cosa concreta la promise, la prima che avrebbe fatto appena messo piede nello Studio Ovale: chiudere Guantanamo. Il non aver mantenuto l’impegno – e non per cattiva volontà, ma perché appena poi messo piede nello Studio Ovale poté rendersi conto che alla liquidazione di Guantanamo si frapponevano insormontabili problemi giuridici e relativi alla sicurezza nazionale – dimostra che Obama è, come i suoi elettori ed estimatori, figlio del suo tempo: prese l’impegno senza preventivamente informarsi, senza riflettere, con la faciloneria del circiterista).

Barack Obama
Barack Obama

Un fanatismo assai simile al feticismo – il giornalismo statunitense si fece cogliere da crisi mistiche nel magnificare la figura di Obama e per quanto ci riguarda, l’allora direttrice dell’Unità, Concita De Gregorio giunse a scrivere che era “il Presidente di tutto il mondo” – tradusse in apoteosi i primi cento giorni, la presidential honeymoon, del nuovo inquilino della Casa Bianca.

I suoi discorsi “all’America e al mondo” furono rubricati uno dopo l’altro come ‘storici’ e questo non ostante la loro trasparente vacuità, la mancanza di idee e di contenuti che non fossero quelle del solito repertorio lirico e magniloquente. Nemmeno l’infantile iniziativa di far pervenire al presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad un video (‘storico’, ovviamente) che lo riprendeva mentre suadente proponeva al capo della rogue nation, dello ‘Stato canaglia’, di stringersi la mano, scordarsi il passato, riconciliarsi e incamminarsi così verso un radioso futuro sollevò nei sovraeccitati estimatori qualche eppur fondata perplessità.

L’imbarazzante taglio alla Pangloss delle prime e ‘storiche’ uscite di Obama si spiega con la teoria dell’imprinting: sentendosi ripetere dallo smisurato stuolo dei sostenitori e adoratori d’essere l’uomo dal tocco magico, dalla parola irresistibile e fatale, d’esser in pratica l’entità mandata dalla provvidenza a risolvere i guai del mondo, Barack Obama finì per crederci.

Finì, cioè, per ritenersi dotato di poteri sovrumani, ovviamente rivolti al bene, di possedere il magic touch.

E l’agire come se lo avesse davvero mandò il suo popolo in deliquio, tanto che in quei mesi l’attenzione al presidente, ma anche alla sua famiglia, sfiorò l’orgasmo collettivo (a Michelle che in regolamentare tenuta da giardinaggio – grembiulone, cappello di paglia e guanti anti callo –, sotto lo sguardo ammirato del ministro dell’Agricoltura e quello compiacente del capo giardiniere della Casa Bianca dava l’avvio alla semina dei broccoli nel first kitchen garden, si riservarono più pagine di giornale e più servizi televisivi di quanti se ne videro alla morte di Lady Diana)

Perché regga, un mito ha bisogno di conferme: basta poco, un colpo mandato a segno, un successo, un riconoscimento universale che non sia il ruffianesco premio Nobel per la Pace assegnato sulla parola (per altro non mantenuta).

Se mancano le conferme, prende l’avvio un disamoramento che finisce nel disinteresse, quanto di peggio per un una icona appena abbozzata.

Il fatto è che Obama non sa che pesci prendere a sostegno della sua traballante leggenda.

E il manometro delle sue insicurezze è rappresentato dai frequenti cambi della guardia dello staff presidenziale, inizialmente formato da individui molto ‘cool’ ma altrettanto incompetenti, poi via, via da gente più concreta e dunque consapevole dell’impossibilità di tradurre nei fatti le visioni messianiche del Presidente.

Il quale, cedimento dopo cedimento è ritornato coi piedi per terra adattandosi – e ciò va senza dubbio a suo merito – a svolgere il ruolo per il quale è stato eletto: il Presidente degli Stati Uniti d’America.

Che fa gli interessi degli Stati Uniti d’America e degli americani, anche se ciò lo obbliga a distogliere lo sguardo dalle piaghe del mondo; a rimandare sine die la stretta di mano con Ahmadinejad; a deporre nell’armadio il mantello magico della fratellanza multiculturale con il quale intendeva avvolgere il pianeta; a lasciare immiserire, perché da come l‘aveva ideata avrebbe immiserito il Paese, la fulgente riforma dell’assistenza pubblica e per lo stesso motivo ad archiviare la legge, figlia del Protocollo di Kyoto, sui limiti delle emissioni serra.

Tutte iniziative – e altre se ne potrebbero aggiungere – adottate nel solco di una continuità con le precedenti presidenze, anche quella che avrebbe voluto esorcizzare nella damnatio memoriae: la presidenza di George W. Bush.

Se così fosse, se l’ambizione di Obama, un’ambizione che resta nobile e alta, è di risultare un buon presidente per i suoi concittadini, bisognerà farsene una ragione: per poter salutare quello che per dirla con Concita De Gregorio sarà il taumaturgico presidente del mondo, si dovrà aspettare.

Portando, anche, molta pazienza.

Paolo Granzotto