Prospettive della questione nucleare iraniana

Come non ringraziare ‘Marco Aurelio’, con ogni probabilità il massimo conoscitore italiano della ‘questione nucleare iraniana’, del seguente, preziosissimo ed esaustivo contributo? – MdPR

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“Colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare” (Nicolò Machiavelli, ‘Il Principe’)

1.      L’intesa raggiunta a Ginevra il 24 novembre 2013  tra i 5 + 1 (Cina, Federazione Russa, Francia, Regno Unito, Stati Uniti + Germania) e l’Iran sul ‘Joint Plan of Action’ ed i ‘Technical Understandings’ (12 gennaio 2014) sulle sue modalità di attuazione per un periodo provvisorio di sei mesi, in vista di una  ‘soluzione onnicomprensiva’, rappresentano una tappa importante della  vicenda, iniziata nel 2002, con la scoperta degli impianti di arricchimento di Natanz.

Gli impegni presi dall’Iran per sospendere le attività di arricchimento dell’esafluoruro di uranio (UF6) arricchito al diciannove e settantacinque per cento, iniziando la conversione in ossido e la diluizione a meno del cinque per cento del materiale sino ad ora accumulato costituiscono una importante misura per il ristabilimento della fiducia nelle supposte finalità pacifiche del suo programma nucleare.

Nella stessa direzione vanno il blocco delle attività presso il reattore potenzialmente plutonigeno di Arak e  della produzione e dell’installazione di nuove centrifughe.

Si tratta, pertanto, di un ‘congelamento’ del programma nucleare in cambio di un limitato alleggerimento delle sanzioni che dovrebbe portare ad un aumento  del tempo di ‘break out’ ovvero del tempo necessario ad arricchire al ‘weapon grade’  un quantitativo di uranio a basso arricchimento pari ad un ordigno nucleare, a produrre, in pratica la ‘quantità significativa’ .

Tale tempo, una volta che tutto l’UF6 arricchito a meno del venti per cento sarà stato convertito o diluito e disponendo delle centrifughe attualmente installate, è  stimabile, secondo alcuni esperti  (ISIS) in  1,9 – 2,2 mesi, mentre, prima dell’intesa, sarebbe stato di 1,1  a 1,6 mesi.

Secondo altri (IISS) sarebbe passato da 1,5 mesi  prima dell’accordo a circa 3 mesi la prossima estate.

Finché l’intesa provvisoria,  la cui attuazione è  iniziata il 20 gennaio, sarà in vigore, l’Iran non dovrebbe raggiungere la ‘capacità critica’ di  produrre abbastanza uranio ‘weapon grade’ per un ordigno nucleare  prima di essere scoperto.

Senza l’accordo, secondo alcuni esperti (ISIS), la ‘capacità critica’ sarebbe stata raggiunta già a metà del 2014.

Nel periodo indicato di sei mesi, effettivamente,  sulla base degli impianti noti, le possibilità di diversione dell’Iran si sono ridotte considerevolmente rispetto al periodo precedente.

 

2.      Le capacità  di arricchimento industriali acquisite dall’Iran rimangono, tuttavia, impregiudicate.

Di fatto, si tratta di un riconoscimento di quel ‘diritto all’arricchimento’, rivendicato dall’Iran, che è solo implicito nel diritto all’uso pacifico dell’energia nucleare sancito dall’Articolo IV del ‘Trattato di Non Proliferazione Nucleare’ ma che, in ogni caso, è controbilanciato dall’obbligo di non produrre un ordigno nucleare stabilito dall’Art III.

In assenza, inoltre di  reattori nucleari – tranne quello di Ricerca di Teheran –  da rifornire con l’uranio arricchito negli impianti di Natanz e Fordow, tale  ‘diritto’ non trova, di fatto, alcun fondamento in un’effettiva necessità di  tipo industriale.

L’avvio stesso della Centrale Nucleare di Busher, per la quale si prevede già un ampliamento, rappresenta la migliore conferma dell’attuale inutilità degli impianti di arricchimento, dal momento che il combustibile necessario al funzionamento dei reattori  viene importato dalla Russia.

Risulta, poi, inevasa la richiesta posta da cinque Risoluzioni del CdS e da dodici del Consiglio dei Governatori dell’AIEA,  di sospendere tutte le attività di arricchimento, iniziate, su scala industriale, nel 2007.

Il fatto poi, che l’Iran continui a disporre del quantitativo di LEU sinora arricchito (a partire dal 2007) a meno del cinque per cento, di per sé sufficiente alla produzione, ove ulteriormente arricchito, di sei ordigni nucleari, rappresenta anch’esso motivo di preoccupazione.

L’uranio che, secondo l’intesa sul ‘Joint Plan of Action’, continuerà ad essere arricchito a meno del cinque per cento – non si sa bene a quale finalità –  verrebbe anch’esso trasformato in ossido.

Suscita, inoltre, perplessità la possibilità, concessa all’Iran, di continuare le attività di Ricerca e Sviluppo sulle centrifughe di nuova generazione.

Tale possibilità consentirebbe all’Iran di perfezionare, nell’impianto sperimentale di Natanz,  centrifughe in grado di moltiplicare, a parità di macchine installate, la produzione di uranio arricchito, mettendolo in grado di ridurre sensibilmente i tempi di ‘break –out’ in caso di fallimento dell’accordo sulla soluzione complessiva.

Se poi si passa dall’‘interim step’ di sei mesi, ovvero le misure volontarie accettate dall’Iran, ai lineamenti della ‘Comprehensive Solution’ accennati nel ‘Joint Plan of Action’, si può constatare che i P5+1 hanno già accettato, in linea di principio, che l’Iran, al termine del processo di ristabilimento della fiducia nelle finalità pacifiche del proprio programma nucleare, possa mantenere una sua capacità di arricchimento e beneficiare della cooperazione internazionale  anche attraverso l’acquisizione di moderni reattori moderati ad acqua (non ad acqua pesante, come, quello, potenzialmente plutonigeno di Arak).

Ciò  presuppone  che sia data una risposta alle articolate richieste di chiarimenti sulle ‘possibili dimensioni militari’ richiesta da due Risoluzioni del Consiglio dei Governatori dall’AIEA all’Iran  nonché dalla Risoluzione 1929 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Il ‘Joint Plan of Action’ prevede l’istituzione di una Joint Commission, formata dai 5+1 e dallo stesso Iran che “lavori di concerto con l’AIEA per risolvere questioni, presenti e passate, che suscitano preoccupazione”, eufemismo per definire proprio le questioni delle ‘possibili dimensioni militari’.

Sorge spontaneo il dubbio che un organismo multinazionale composto da alcuni Stati Membri dell’Agenzia (per la maggior parte militarmente nucleari) e dallo stesso Stato oggetto di inchiesta  sia stato costituito per indirizzare o influenzare le attività di un organismo internazionale che dovrebbe essere, a norma del suo stesso Statuto, del tutto imparziale.

Il limitato alleggerimento delle sanzioni, collegato strettamente all’attuazione da parte iraniana delle citate ‘misure volontarie’, equivarrebbe – secondo stime statunitensi – ad un beneficio, per l’Iran di sette miliardi di dollari.

In economia, tuttavia, le aspettative contano più dei dati reali e la sensazione, ormai diffusa, che le sanzioni decise dal Consiglio di Sicurezza saranno, prima o poi, rimosse, ha già fatto scattare la ‘corsa a Teheran’ da parte di governi ed imprese interessate la mercato iraniano,  con effetti immediati sulla quotazione della moneta iraniana, che aveva subito, sino a novembre, una forte svalutazione.

Per quanto da parte dell’Amministrazione Obama si ribadisca in ogni circostanza che l’alleggerimento sia reversibile, le aspettative degli imprenditori sono ora rivolte verso una fine dell’embargo.

Esiste quindi  sin d’ora uno squilibrio tra la assoluta reversibilità delle misure volontarie di autolimitazione assunte dall’Iran e le sanzioni adottate in ottemperanza alle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.

 

3.      Sul piano politico-diplomatico,  per gli esperti di diplomazia nucleare l’intesa sul ‘Joint Plan of Action’  ricorda molto da vicino l’‘Agreed Framework’, concluso dagli Stati Uniti con la Corea del Nord nell’ottobre del 1994.

Tale sfortunato accordo consentì al regime nordcoreano di dotarsi dell’arma nucleare e di effettuare ben tre test tra il 2006 ed il 2013.

Esso prevedeva una serie di misure volontarie di autolimitazione e, addirittura, di smantellamento progressivo del proprio programma nucleare, che la Corea del Nord avrebbe dovuto adottare in cambio di benefici a vario titolo e, alla fine, della fornitura di moderni reattori nucleari moderati ad acqua (come nel caso del ‘Joint Plan of Action’).

L’‘Agreed Framework’ fu l’inizio di una ‘saga nucleare’ entrata ormai nel suo ventesimo anno e costellata di intese provvisorie, piani d’azione e dichiarazioni congiunte che non hanno raggiunto l’obiettivo, annunciato sin dal 1991, della denuclearizzazione della penisola coreana, bensì il suo esatto contrario.

Lo stesso copione sembra ripetersi nel caso dell’Iran.

I 5+1, facendo leva sull’efficacia delle sanzioni, avrebbero dovuto chiedere all’Iran l’adempimento – sic et simpliciter –  di quanto richiesto dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e del Consiglio dei Governatori dell’AIEA, ovvero la sospensione di tutte le attività di arricchimento dell’uranio, di riprocessamento e  quelle relative alla costruzione del reattore nucleare di Arak  in attesa di ristabilire la fiducia nelle finalità pacifiche del  suo programma nucleare.

Ciò, in definitiva, avrebbe significato per l’Iran l’ammissione di avere messo in piedi un articolato programma militare – ormai chiaramente  identificato dall’AIEA, nel 2011, nel suo Rapporto sulle Possibili Dimensioni Militari –  di cui la parte soggetta a salvaguardie dell’AIEA rappresenta la parte ‘emersa’.

In realtà, più che di possibili dimensioni militari del programma nucleare iraniano si dovrebbe parlare di una sua pretesa e non dimostrata finalità civile, essendo ormai numerose  le prove che ne confermano la vera natura.

Tale ammissione avrebbe comportato l’obbligo di smantellare il programma militare  sotto la verifica dell’AIEA, così come accaduto, nel 2003, per la Libia di Gheddafi e di rinunciare al programma di arricchimento dell’uranio.

Ciò avrebbe conseguito un effettivo e duraturo ‘rollback’ del programma militare.

L’accettazione da parte dei 5+1 del principio di gradualità delle misure di autolimitazione e del corrispettivo graduale smantellamento delle sanzioni, non porterà ad un disarmo nucleare dell’Iran  né completo né irreversibile e, alla lunga, se non verrà fatta luce sulle attività militari, nemmeno verificabile.

4.      Come nel caso nordcoreano, alla questione nucleare è strettamente connessa quella missilistica.

A parte la constatazione che il dotarsi di missili balistici a lunga gittata (mille chilometri) come lo Shahab III (versione iraniana del ‘Nodong’ nordcoreano) e lo sviluppo di vettori  con una gittata ancora maggiore (‘Sejil’ duemila chilometri) costituisce di per sé la prova della volontà iraniana  di voler impiegare testate non convenzionali (ovvero nucleari), il citato rapporto AIEA aveva  portato all’attenzione gli studi condotti dall’Iran per la progettazione di testate nucleari per missili, quale parte integrante del programma militare clandestino.

Nel 1998, mentre venivano al pettine i primi nodi dell’‘Agreed Framework’, si pose con evidenza anche la questione dei missili balistici nordcoreani.

Per cercare di porvi rimedio, l’Amministrazione Clinton intraprese un negoziato con la Corea del Nord per convincerla ad abbandonare lo sviluppo di missili balistici.

Nel team negoziale che accompagnò l’allora Segretario di Stato Albright a Pyongyang si trovava anche Wendy Sherman, la diplomatica americana che ha  negoziato l’intesa nucleare con Teheran.

Inutile dire che anche l’accordo sui missili naufragò sulle ambiguità nordcoreane  e non fermò in alcun modo lo sviluppo di ulteriori vettori  a lunga gittata.

La questione missilistica  è stata evocata  immediatamente, sia in Israele sia nel Congresso USA, al momento stesso della conclusione dell’intesa di novembre.

Seppure tardivamente, anche Wendy Sherman ultimamente l’ha citata, ricevendo un secco rifiuto a mezzo stampa da parte iraniana.

 

5.      E’ opinione diffusa che, almeno per il primo periodo di sei mesi, l’Iran abbia tutto l’interesse a mettere in atto scrupolosamente tutte le misure di autolimitazione concordate.

Vi è d’altra parte l’interesse, da parte dei 5+1, a ‘congelare’ il programma nucleare iraniano.

Più difficile sembra essere il raggiungimento, entro il termine di sei mesi  (prorogabile), dell’Accordo sulla ‘soluzione onnicomprensiva’ (‘Quick fix).

In primo luogo, i 5+1 sono lungi dall’essere compatti e si dividono, di fatto, tra gli USA ed i tre europei da un lato e la Cina e la Russia dall’altro con queste ultime più favorevoli ad una sollecita chiusura del dossier nucleare iraniano.

Esiste, inoltre, una chiara opposizione del ‘convitato di pietra’ ovvero Israele, per il quale un Iran munito dell’arma nucleare rappresenta una minaccia esistenziale.

Il Congresso  degli Stati Uniti, dove esiste una consolidata diffidenza, ‘bipartisan’, nei confronti dell’Iran, difficilmente vorrà rinunciare all’arma delle sanzioni, in considerazione anche della politica iraniana in Medio Oriente, che mira all’egemonia regionale.

In Iran, il vasto settore militare-industriale legato al programma nucleare, che fa capo al Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, da parte sua, potrebbe porre veti al Presidente Rohani ed al Ministro degli Esteri Zarif e la stessa Guida Suprema, per quanto disponibile a concessioni sul piano tattico, potrebbe trovarsi costretta a sconfessare il Governo.

Di conseguenza è quanto mai probabile una prima proroga (‘rollover’), del resto espressamente prevista dall’intesa di Ginevra, per dar modo ai negoziatori di giungere ad una ‘soluzione onnicomprensiva’ che cerchi di conciliare obiettivi opposti, quello iraniano di mantenere intatte le proprie capacità di costruirsi un ordigno nucleare e quello occidentale di impedire all’Iran di raggiungere tale obiettivo.

Al momento, l’Amministrazione Obama sembra accontentarsi di un obiettivo molto più limitato, ovvero quello di allungare il tempo di ‘break out’ dell’Iran.

Ciò , almeno in teoria, permetterebbe di rimettere in moto il meccanismo delle sanzioni senza escludere l’opzione militare, attualmente poco credibile da parte statunitense ma sempre credibile da parte di Israele.

Vale la pena, tuttavia, di sgombrare il campo da un’argomentazione avanzata ad ogni più sospinto dai sostenitori di un accordo ad ogni costo con l’Iran, secondo cui tale accordo sarebbe l’unica alternativa valida ad una guerra.

Innanzitutto non è detto che un’eventuale azione militare di contro proliferazione – al di là di ogni considerazione sulla sua efficacia – si tradurrebbe necessariamente in un conflitto esteso al resto della regione.

In secondo luogo è ormai dimostrato che è stata la diplomazia delle sanzioni, dell’isolamento internazionale, del blocco economico – in pratica del containment’ – la più efficace, sino ad ora, per ritardare la corsa di Teheran alla bomba.

Marco Aurelio