Nel reticolo di fiumi e lagune e barene e canali veneti, seguendo le tracce di Ernest Hemingway

Le ‘fate lavanderine’ non saltellano più tra le cannucce e i lecci sulle loro zampette di pecora.

Il nano ‘Massariol’ non sbuca più da dietro i pungitopo per pizzicare il mandolino alle ragazze.

E i dolcissimi gamberi di fiume che un anonimo artista adagiò devotamente fritti nel piatto di Gesù nell’ultima cena dipinta nella chiesa di San Giorgio a San Polo, come notò un giorno sul ‘Corriere’ Bruno Rossi, hanno subito un’ecatombe da cui solo oggi cominciano un po’ a riprendersi.

Se andate in cerca di leggende d’acqua della campagna veneta, però, potete prendere una barca bassa e risalire la costa da Venezia a Trieste senza toccare il mare.

Seguendo la scia lasciata, nel reticolo di fiumi e lagune e barene e canali, da Ernest Hemingway.

Se il grande ‘Papa’ abbia risalito tutta in una volta questa stupenda e quasi ignota via d’acqua tracciata dai veneziani per arrivare dalla città serenissima fino all’Isonzo e in faccia al capoluogo giuliano non si sa.

Né tantomeno è chiaro se si avventurò su su verso nord, oltre le secche sassose e i filari di Ribolla, dove il fiume riprende il suo nome sloveno di Soca e si rovescia a valle solcando il canalone sotto il monte Nero e la Sella di Caporetto.

Certo è che pochi scrittori ‘foresti’, fatta eccezione s’intende per il vicentino Goffredo Parise che arrivò a ‘scegliersi’ le radici sul Piave, hanno amato quanto li amò Hemingway i paesaggi e l’anima e le atmosfere e i ‘boretti’ di pesce delle lagune e delle acque interne venete.

Quell’acqua che il poeta Andrea Zanzotto canta come “acqua inconsistente acqua incompiuta / che odori larva e trapassi / che odori di menta e già t’ignoro / acqua lucciola inquieta ai miei piedi”.

“Sono un ragazzo del basso Piave”, disse una volta.

E la frase è incisa su una stele a Fossalta, dove il grande romanziere americano era rimasto ferito da un colpo di mortaio e una sventagliata di mitra.

“Ci fu un lampo, come quando si spalanca la porta di un altoforno, e si sentì un rombo. All’inizio era bianco, poi diventò rosso e continuava, continuava nel vento furioso… Mi sforzai di respirare, ma il respiro mi si era bloccato e mi sentivo correre di peso fuori da me stesso, sempre più fuori, sempre più fuori…”.

Difficile spiegare meglio di lui cosa si provi ad essere investito in pieno da una granata. Gli successe la notte tra il sette e l’otto luglio 1918, mentre girava per le trincee per portare ai soldati in prima linea sigarette e cioccolata.

Avrebbe scritto al padre: “Morire è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero. Se avessi dovuto morire sarebbe stato molto facile”.

Quando rinvenne, vide che uno dei due soldati che aveva raggiunto nell’avamposto era dilaniato, l’altro era vivo. E fece ciò che aveva sognato di fare arruolandosi a diciassette anni volontario nella Croce Rossa: riuscì a caricarselo sulle spalle e (nonostante le duecentoventisette schegge che gli avrebbero contato addosso e gli davano la sensazione di “avere stivali di gomma zeppi d’acqua”) a rientrare nelle trincee amiche. Guadagnandosi due ore di deliri in una stalla senza tetto, un viaggio infernale di quarantotto ore fino a Milano, un lungo ricovero nell’ospedale americano e una medaglia d’argento.

‘Aveva visto tutto lo scrittore assente’, titolerà settant’anni dopo ‘Repubblica’, ironizzando sul fatto che a Caporetto, quel tragico 25 ottobre del 1917, ‘Ernie’ non c’era.

E spiegherà un intellettuale fine come Guido Almansi: “Per Hemingway l’arte di scrivere consiste alla fine in ‘making it up’, per adoperare una delle sue espressioni favorite: nell’abilità di inventare le cose, di evocarle, combinarle e manipolarle, in modo da creare una illusione di esperienza diretta. Prepara il suo intingolo con la Waterloo della ‘Certosa di Parma’, la conoscenza diretta della rotta di un esercito nei Balcani e il lavoro di ricerca (in biblioteca, se non in archivio) su quello che era successo sul fronte italo-austriaco”.

Insomma: un ballista.

Accusa mossa più volte al grande scrittore.

Ed ecco Almansi precisare che l’Udine di ‘Addio alle armi’ è presa dalla guida turistica Baedeker’s.

E il torero Dominguin sbuffare che “le sparava grosse come Antonita la fantastica” e giurare che “aveva preso tre, dico tre, lezioni di pugilato e da quel momento, per decenni, si è fatto celebrare come uno dei massimi esperti mondiali di boxe. E naturalmente ha fatto la stessa cosa della corrida”.

E un ristorante madrileno mettere un cartello: ‘Qui non mangiò mai Hemingway’.

E studiosi più o meno seri fare le pulci a questo e quel dettaglio: quando mai si è immerso lui come i masai nell’acqua per restar delle ore immobile in attesa del bufalo?

Fino al veleno di Giovanni Comisso, astioso col “popolaccio italiano così succubo della propaganda editoriale americana fino a credere che Hemingway fosse un grande scrittore”.

Gelosie galeotte.

Non solo lo stesso Comisso, prima d’esser roso dall’invidia, s’era inventato d’aver “pranzato più volte” con ‘Ernie’ all’ospedaletto militare di Dolegnano nel 1917, quando il futuro autore de ‘Il vecchio e il mare’ era ancora in America.

Ma lo stesso Hemingway, che pure qualche bugia la cacciava (basti leggere la lettera alla mamma dall’ospedale dopo due mesi due e mezzo che era in Italia: “parlo italiano come un milanese nato…”) riconobbe ovviamente senza problemi di non essere mai stato a Caporetto, come pure era scritto perfino nel risvolto di copertina di una edizione di ‘Addio alle armi’: “Ciò che racconto lo so da un amico e dalle chiacchiere che mi capitò di ascoltare quando ero in ospedale”.

Niente gialli, niente imbrogli.

Le date, del resto, non lasciavano dubbi: il ‘Papa’ si era imbarcato sulla ‘Chicago’ il 21 maggio 1918 e aveva preso servizio a Schio (dove avrebbe lasciato traccia anche con un articolo su un giornalino chiamato ‘Ciao’ firmato con ironia garibaldina ‘Gerry Baldy’) nella seconda settimana di giugno.

Il fatto è che ‘Addio alle armi’ resta la più lucida e straordinaria fotografia di un momento storico, di una terra amatissima, di un popolo.

Dove, al di là della finzione letteraria, è vero tutto: la vita nelle trincee, i lutti, gli odori, gli scoppi di spiritata euforia negli ospedali militari, l’amore di Frederic Henry (Hemingway) per l’infermiera Chaterine Barkley, che si chiamava Agnes von Kurowski, era di Germantown e tenne con il nostro una fittissima corrispondenza spezzandogli il cuore nella speranza di sposare (progetto fallito) il duca Nicolò Caracciolo.

“Fu forse l’unico vero amore, con la prima moglie, di ‘Papa’”, racconterà Fernanda Pivano: “Il colpo fu così duro che molti anni dopo, quando lei scoprì che per uno scherzo del destino erano finiti a vivere tutti e due a Key West e cercò di far pace mandandogli un pacco di foto e di lettere, lui lo buttò via senza neppure aprirlo”.

Perché forse nessuno è riuscito a ‘vedere’ la ritirata di Caporetto come la ‘vide’ Ernest Hemingway:

“Durante la notte molti contadini si erano uniti alla colonna dalle strade di campagna e nella colonna vi erano carri carichi di masserizie domestiche; c’erano specchi che spuntavano tra i materassi e polli e anatre legati ai carri. Sul carro davanti a noi nella pioggia c’era una macchina da cucire. Avevano salvato le cose di maggior valore. Se alcuni carri le donne sedevano rannicchiandosi contro la pioggia e altre camminavano accanto ai carri tenendosi più vicine che potevano alle ruote…”.

E forse nessuno ha saputo come lui descrivere quel pezzo di Veneto.

Lì aveva vissuto il suo primo impatto con la guerra, il fronte, il sangue, la morte.

Lì aveva battuto le osterie come ‘alla Cibara’ tracannando in compagnia merlot e racconti di eroismo e canzoni degli Arditi: “Quante volte fra le tenebre folte, / nella notte estraemmo il pugnal / fra trincee e difese sconvolte / dalla mischia cruenta e fatal”.

Lì aveva imparato ad amare, in certe pause in cui anche i nemici respiravano, immagini struggenti quali “la barca ferma laggiù, tra i salici ricurvi sul canale”.

‘Mr. Papa’ ci tornò e ritornò più volte.

Richiamato dalla nostalgia per quelle acque che uniscono i due grandi porti del Golfo di Venezia, prodigio della natura e dell’uomo, tagliando fuori il mare tranne il piccolo braccio finale da punta Sdobba al castello di Miramare.

E amava le tamerici e i giuggioli di Torcello, dove poteva passare ore a guardare le barene dietro la basilica e dove scrisse, nella locanda di Giuseppe Cipriani, quel romanzo che raccontava l’amore senza orizzonte per la giovane Renata di Richard Cantwell, che va a morire di ritorno da una battuta di caccia in botte, ‘di là del fiume e tra gli alberi’.

E amava i canali che uno dopo l’altro uniscono la Palude della Rosa al Sile e il Sile al Piave e il Piave al Livenza e il Livenza alla laguna di Caorle, dov’è la stupenda e malconcia residenza ‘di là del fiume e tra gli alberi’, appunto, di San Gaetano.

Dove andava ospite dei Franchetti, il cui patriarca Raimondo è ricordato in una gagliarda targa sulla facciata che lo vanta quale “intrepido esploratore in Africa per isvelarne il mistero alla scienza e discoprirne all’Italia le occulte ricchezze”.

Ci andava preferibilmente d’autunno.

Autunni “di giornate splendide, di brevissime piogge che lasciano il cielo più terso di prima e accendono di arcobaleno il collo e la testa dei germani reali e dei codoni che si alzano all’improvviso dai canneti verso spazi che sembrano eterni.

I silenzi sono dolcissimi.

I rumori sono quelli di un cefalo che qua e là guizza a mezz’aria e ricade nell’acqua, del fruscio delle foglie appena mosse dal vento, del richiamo degli uccelli migratori che arrivano dopo un lungo viaggio dai Paesi dell’Est e scendono con larghe volute sulla laguna di Caorle rimasta antica nei suoi umori e nel sapore della vita”.

Miracolo: è rimasto ancora tutto (quasi) così.

Rari motoscafi che passano col rombo proporzionato alla strafottenza dei padroni, rare ciminiere lontane testimoni del Nordest che sgobba, rari barconi di gitanti.

Il resto è pace.

Pochi pescatori che si dondolano nelle barchette, qualche canna con il filo dell’amo in tensione che spunta tra le rive, una ‘pattanella’ che avanza con l’elica a spingarda che frulla morbida senza levare uno spruzzo, tonfi attutiti di remi che affondano regolari nell’onda morbida, grida di gabbiani, spirali nel cielo di falchi pescatori.

Ogni tanto, su qualche canale laterale o lungo lo Stella o il Tagliamento dalle sponde verdi e rigogliose o più su verso porto Buso e la laguna di Grado, c’è un cartello: osteria da Gigi, trattoria da Toni, ‘poenta e pesse’ da Nane.

All’osteria da Nico, accanto alla casa dei Franchetti, tutto è rimasto com’era.

I tavoli all’aperto con le tovaglie a quadretti, le panche di legno, le siepi stracolme di fiori e il vecchio bancone ligneo con la mescita del vino sfuso.

Sulla parete, una grande foto di Hemingway dopo una giornata di pesca o di caccia passata in una di quelle “botti di doghe di quercia immerse nel fondo della laguna” che tanto amava “più per il rito che per sparare davvero”, come spiega Fernando Pivano.

Era in posti come questi che raccoglieva storie, rideva delle sfumature del dialetto veneto arrivando (parola di Giovanni Cecchin, chissà se aggiustate dal ricordo) a “coglierne le inflessioni dialettali”, discettava sulla tecnica della costruzione d’una ‘mosca da pesca’ mettendoci un entusiasmo tale che suo figlio John finì per scegliersi come mestiere proprio quello di fabbricante di ‘mosche’, raccontava storie sentite altrove come quella del pittore Italo Squittieri che “dormiva insieme a una gallina per avere tutte le mattine un ovetto fresco”.

L’acqua placida e salmastra e la peluria di polvere di terra buona depositata sulle canne e i cavalli che arrancano nella neve d’inverno lungo i canali col “fiato che formava pennacchi nell’aria fredda” gli restarono dentro per sempre.

Basti rileggere una lettera a Bernard Berenson del 1948: “Sono un ragazzo del basso Veneto… Sono un vecchio fanatico del Veneto ed è qui che lascerò il mio cuore”.

Un amore esteso, come si legge in ‘Di là del fiume e tra gli alberi’, a tutta la regione: “Vorrei essere seppellito lassù, lungo il Brenta, dove sorgono le grandi ville, coi prati e i giardini e i platani e i cipressi.

Non credo sarei d’impaccio. Sarei una parte del suolo dove i bimbi giocano alla sera e alla mattina forse continuerebbero ad allenar cavalli a saltare e gli zoccoli calpesterebbero l’erba e le trote affiorerebbero nello stagno quando ci fosse uno sciame di moscerini…

Vorrei essere seppellito sull’Altopiano dove li abbiamo battuti…

Sul Grappa, sull’angolo morto di qualsiasi pendio crivellato di granate, purché mandino le vacche a pascolare”.

Gian Antonio Stella