I re del gioco che hanno sbancato i Caraibi

Il vizio, un soprannome, la vita scandita dal poker. Poi il colpo da maestri: lasciare i bar di Luino per aprire dei casinò

«Il parigino», un ometto magro dalla faccia ovale che adesso vive a Guadalupa, è stato uno fra i più importanti giocatori d’ azzardo che si siano mai visti gironzolare dalle parti della sponda lombarda del Lago Maggiore.

Amante dei gilet (la sua collezione personale consta di ben duecentosessantaquattro capi) e del vino portoghese, deve il suo soprannome a un paio di baffetti sottili e ad una certa eleganza esibita da sempre nel vestire: questo suo modo di presentarsi, «alla francese», ha rappresentato per anni, in quell’ ambiente profanato dal vizio che erano certi caffè di provincia di una volta, il tratto e la maschera più evidenti del suo savoir-faire ai tavoli da gioco.

Lui, come almeno una decina di suoi ex colleghi di bisca, fa parte di quella stretta cerchia di privilegiati del destino, rigorosamente anonimi come i vincitori delle grandi lotterie, che dalle salette di questi bar sul lago prese in affitto tutto l’anno da una corte di sgamati pokeristi, «gabolatori», laureati in chemin de fer e viveur di professione, sono passati alle suite versione «paraiso do mundo» con vista sul Mar dei Carabi: è lì che infatti alcuni di questi giocatori se ne sono andati anni fa riuscendo – non si sa esattamente come – ad aprire dei casinò, e a mettersi quindi finalmente in proprio con quelle famose «isole da gioco» sui cui avevano sempre scherzato nelle lunghe soste quotidiane che facevano nei bar.

Non tutti però hanno potuto giocare di fino e fare le cose in grande: si dice che ai più «sfortunati» sia toccata l’ amara sorte di doversi semplicemente «accontentare» di trovare un posto come direttore.

Non è quello che è successo ovviamente al parigino, «monsieur gilet».

«La mia è stata una vita di guai fino al momento in cui mi sono ritrovato con un po’ di soldi in mano – confessa oggi l’ ex giocatore dalla sua casa dei Caraibi.

Ricordo, una sera, che nel mio pacchetto di Ms c’erano rimaste tre sigarette, e novemila lire era invece tutto quello che avevo in tasca.

Infilai una “gobba” misericordiosa a Campione quella notte (ndr. la gobba è il momento in cui la fortuna assiste a lungo il giocatore permettendogli di fare ciò che vuole di numeri e puntate) giocando appunto sempre sul tre e sul nove: vinsi molto, ma avevo anche perso molto e per anni.

C’ era gente che mi doveva dei soldi, e quella “gobba” più qualche prestito mi servì per mettermi in società con alcuni amici di qui: fui consigliato bene, era il momento per aprire dei casinò».

La vita ai Carabi, per queste icone alla Piero Chiara, è sempre stata una fissazione, sin da quando – giovani e senza soldi ma già con una moglie e dei figli da mantenere – immaginavano, da dietro le vetrate di questi bar di paese tristi e appesantiti dalla noia soprattutto d’ inverno, di poter vivere un giorno su una di quelle isole con le spiagge bianche e il mare verde cristallo; certo non avrebbero mai scommesso un soldo, loro, che di secondo mestiere facevano i contrabbandieri, di riuscire addirittura a passare dall’ altra parte del «banco», diventando i «governatori» di case per giocatori d’ azzardo.

«Quando capitava che i mariti non passavano più i soldi per il mangiare alle mogli erano dolori – racconta un vecchio barista che questi giocatori li ha visti venire su uno ad uno.

Vedevi queste donne, anche d’ inverno, che in camicia da notte entravano disperate nel bar urlando contro tutti quelli che stavano seduti chini sulle carte reclamando “la settimana”.

Ma loro niente, non facevano una piega: il gioco non conosceva ragioni».

Uno di quelli che si accomodava spesso proprio a quel tavolo era il famoso «La Tris»: in quei rari momenti di pausa che servivano per mandare giù un boccone e che s’ intervallavano tra uno smazzo di carte e l’ altro, «era capace di sgolarsi mezza bottiglia di champagne in un fiato e di ingozzarsi una frittata di venti uova.

Adesso l’ hanno fatto direttore di un casinò a Santo Domingo e si è sposato con una donna di lì: non è mai più tornato.

Ogni tanto lo sentiamo per telefono, qualcuno di noi è andato anche a trovarlo qualche volta», dicono quelli del bar.

Chi invece ritorna nella sua casa che si trova in un paesino a una quindicina di minuti da Luino, una volta ogni due anni, è un tizio che veniva soprannominato «il professore».

Gestore di un paio di locali notturni e di un casinò lungo le coste del Venezuela, resta sorpreso di tanto clamore per «una cosa che è assolutamente normale.

Sono molti gli uomini d’ affari che hanno deciso di investire nei casinò dei Carabi». Sul conto del «professore», altro grande ex giocatore e «incantatore» di carte, come lo ricordano alcuni compagni, si sono sempre dette molte cose: fra queste anche quella di essersi «gabbato» un’ eredità che non gli spettava.

«Tutte fesserie, invidia – sentenzia -, i soldi li ho sempre avuti».

Chi lo ebbe come avversario non può fare a meno però di non riportare a galla la vecchia storia della brillantina: «Prima di sedersi al tavolo e di cominciare a giocare, aveva la mania di chiedere della toilette – racconta un ex giocatore di queste parti – ma non per qualche bisogno fisiologico, bensì per dare un’ ultima aggiustatina ai capelli.

Da una boccettina in vetro che portava nel taschino della sua giacca e che conteneva birra di qualche giorno, faceva cadere poche gocce sui capelli: era la sua brillantina, un modo per risparmiare dei soldi che potevano servire per il gioco».

Fra questi viaggiatori che il gioco a quei tempi teneva lontani dalle famiglie ce n’ era uno soprannominato «pallina», innamorato di una donna di Santo Domingo già sposata con uno che veniva a fare le vacanze da queste parti.

«Non sono mai stato uno stinco di santo – ammette al telefono dalle Barbados.

Ho fatto le mie gabole, del tipo che spacciandomi per impresario edile vendevo appartamenti in costruzione che non erano miei, spillando sugli acconti.

Il gioco ti porta a fare cose che non avresti mai pensato: sono solo delle carte, pensi, e invece!

Io però ho saldato tutti i miei debiti.

Ho messo in vendita la casa dei miei, e con la dominicana sono partito per le Barbados.

Ho aperto il casinò con uno zio di lei».

Da Luino ha preso la via dei casinò dei Carabi anche il «Marlon Brando», personaggio molto noto e che stava anche lui a Santo Domingo «dove venne accoltellato e da dove un giorno arrivò anche un certificato di morte a cui nessuno credette», oppure «il dottorino», «scappato con un miliardo su un isola del Venezuela e poi rientrato», o ancora «l’ amministratore», che «organizzava voli charter fasulli». Diceva una volta un signore luinese (che adesso sta a Santa Marta, di fronte al caribe colombiano): «In Italia i bar chiudono presto, le donne sono fredde e impenetrabili come la nebbia e poi nei casinò non si bevono quelle spremute di mango e mandarino che sono la fine del mondo».

Il signore, un certo «vertìca», giocando forte sulla serie vinse un giorno quattrocentomila franchi: con la scusa dei bar, delle donne e delle spremute di mandarino tentò pure lui la strada dei casinò: ora fa il taxista abusivo tra Santa Marta e Cartagena.

«L’ ha rovinato una dominicana di Puerto Plata».

Plata nello spagnolo di lì significa denaro.

Gianluca Mattei