Medjugorje: il ‘Piccolo Teatro’ della fede

Medjugorje. Come molti luoghi sui quali aleggia un incantesimo, ha un nome quasi impronunciabile (che il serbo-croato significa “in mezzo alle montagne”) ed è tutt’altro che facile da raggiungere.

Per arrivarci ho impiegato quasi trenta ore, cambiando tra treni navi e corriere più mezzi di trasporto di Dante e Virgilio nell’Inferno.

Medjugorje: un fazzoletto di terra arida e rossiccia in una vasta e trasognata pianura: una piccola conca cinta da massicce colline verdeggianti.

Così la descriverebbe Liala, rendendo tutto sommato abbastanza efficacemente l’idea della realtà.

E’ anche, aggiungeremo noi, il piccolo teatro delle fede.

Dietro la chiesa di San Giacomo – una costruzione lunga e piatta, sormontata da due torri gemelle, in cui si fondono Messico e Tirolo – si trova il cosiddetto ‘altare d’estate’: lo copre un enorme tendone da circo tempestato da bandierine ondeggianti.

Medjugorje
Medjugorje

Sul palco a emiciclo si esibiscono, in occasione del Festival della Gioventù che si svolge in questi torridi giorni d’agosto, predicatori e relatori di testimonianze.

Disposte come in un anfiteatro, centinaia di panche sono stipate di un variegato campionario di umanità.

Al mio arrivo, la star di scena è un prestante giovane barbuto in caffettano bianco, con due festoni arancioni che gli scendono sulle spalle: sta parlando in americano e la prima frase che colgo è “I like women”, ripetuta dalla traduttrice in serbo-croato e sottolineata da scroscianti applausi.

Ma più interessanti del predicatore mi sembrano gli spettatori.

Ricordo sempre, in simili occasioni, i versi di Emily Dickinson: “The show is not the show, but they that go”.

Così il mio sguardo viene catturato da un prete slavo che si sventaglia con un sorriso estasiato sotto un cappellino a ombrello, dalla prima fila tutta di vecchiette in carrozzina e da un gruppetto di giovani tatuati nella posizione yoga della farfalla che agitano freneticamente le braccia proprio come a un concerto di Vasco.

Scelgo l’ora del crepuscolo per salire sulla collina delle apparizioni, il Podbrdo (altro nome che richiede, per essere pronunciato, la lingua di una salamandra).

Al villaggio di Bijakovici situato alla base della scalata scelgo come guida extravagante una zitella strabica che si rivela di un’eccezionale gentilezza e sapienza e si offre di accompagnarmi per un tratto.

Come nel famoso dialogo di Platone ci fanno da colonna sonora le cicale, mentre una leggera brezza – per tornare a Liala – spettina gli eucalipti (o si tratta di semplici ulivi?); con l’inconfondibile accento della terra di Matera, la signorina mi racconta dei sei veggenti (Marija, Mirjana, Ivan, Ivamka, Jakov e Vicka) e delle apparizioni che si ripetono con frequenza diversa all’uno e all’altro dal 25 giugno 1981.

Ad una la Vergine è apparsa solo una volta, a un’altra appare tutti i giorni ovunque vada.

Solo quattro dei veggenti abitano ancora a Bijakovici: Marija si è sposata a Monza, Ivan è spesso in America; non si frequentano più di tanto, hanno in comune solo l’elezione visionaria.

Nessuno di loro approva il chiasso che si è fatto intorno alle apparizioni e la mercificazione dell’evento che ha fatto diventare Medjugorje in pochi lustri un centro commerciale.

‘ultimo tratto della scalata lo percorro da solo: il sentiero è piuttosto impervio, le pietre più lisce sono zoccoli adunchi, piramidi spigolose e appuntite.

Ripenso alle scene cruciali del mio cult film ‘Picnic a Hanging Rock’: anch’io, come Miranda e le sue compagne, sarò rapito dal demone sconosciuto, o sarò fatto precipitare a valle come la perfida preside?

Da qualcosa, in effetti, saro’ rapito: dal silenzio grave e sospeso che si stende come una coltre magica intorno alla statua bianca della Vergine (Ja sam Kralijca Mira) avvolta in un manto candido al centro di una stella esagonale.

Saranno più o meno cento le persone sedute sulle rocce, disseminate qua e là come i principi nella valletta fiorita dell’anti-Purgatorio, e sono tutte assolutamente silenziose.

Nessun palco qui, nessun istrione: è l’‘Act sans parole’ dell’alter ego di eckett convertitosi misteriosamente alla serenità.

Perfino i bambini – e non sono pochi – se ne stanno immobili, con le teste devotamente ripiegate sulle ginocchia.

Una valchiria in chiffon completamente calva rigira un rosario viola tra le dita laccate della stessa tinta, un giapponese con indosso la maglietta del Milan si inginocchia a lato di una matrona cotonata in lacrime.

C’è chi getta all’interno dell’inquietante esagono fiori, soldi ma soprattutto messaggi scritti, in qualche caso imbustati.

Una ragazza in short bellissima, che non si regge sulle proprie gambe, sorretta da giovani amici si fa fotografare davanti alla statua.

Non ricordo d’aver mai visto tutti insieme tanti sorrisi tremanti e coraggiosi.

Anche qui a ispirarmi e commuovermi è più il pubblico.

Ma lei pure, la Vergine, merita attenzione: il volto è di una dolcezza disarmante, e quel panneggio vagamente premaman le cade perfetto: l’hanno donata i coreani a Medjugorje dopo la prima apparizione.

Io non ho grazie da chiederle: di fronte alla disperazione che leggo nei volti degli adoranti più vicini al sacro recinto troverei ridicolo implorare più intelligenza da parte di un editore o una love story (almeno una!) fortunata: non mi sembra siano cose davvero importanti.

Così resto imbambolato a contemplare, senza mai stancarmi, l’incredibile spettacolo dell’‘aspra tragedia dello stato umano’ e ad assaporare la serenità di quel silenzio catartico.

Mi sento l’angelo biondo del ‘Cielo sopra Berlino’, quello che, saggiamente, ha scelto di non incarnarsi.

Nelle discesa è il concerto dei grilli a sostituire le paniche cicale; ma ad accompagnarmi è anche l’eco di una preghiera recitata ad alta voce dai pellegrini olandesi che mi precedono.

La serata offre un’omelette con patate fritte più Fanta in una ‘piteria’ abbastanza defilata per la modica cifra di quattro euro (qui li accettano ovviamente), poi lo sciamare di miriadi di turisti per l’arteria principale del villaggio: non ho mai visto tante botteguzze stipate in così esiguo spazio (Regina Pacis Souvenir, Uspomene, Religious Articles, e l’immagine della Madonna su cucchiaini, accendini, apriscatole…).

D’un tratto, nella piazza antistante la chiesa, esplodono come fuochi d’artificio le danze più sfrenate.

Sta per iniziare un altro spettacolo: la rappresentazione teatrale dei misteri della luce recitata dagli ex tossici della comunità di Suor Elvira.

Uno show rutilante, con una scenografia che ha poco da invidiare a ‘Hair’ o a ‘Rocky Horror Picture’.

E’ Suor Elvira, una donnina vispa e imperiosa, a introdurre lo spettacolo: parla letteralmente a braccio ma con un vigore straordinario.

Non c’è nulle, in lei, di simile ai tronfi predicatori del pomeriggio e mi ricorda la mia prof. del ginnasio: tono incalzante, vigoroso, pochi concetti precisi, niente slogan o frasi accattivanti.

Sferzate d’energia pura.

La traduttrice non riesce a starle dietro.

Lei parla, in italiano, di ‘trasformazione’, uno dei pochi eventi che m’interessino nella monotona valle di lacrime della vita umana.

La nostra – dice fra le altre cose – non è una religione; è una rivelazione, è un’invenzione di Dio.

Lo spettacolo offre agli spettatori costumi sgargianti, dialoghi evangelici e balletti da Moulin Rouge; il tripudio nell’anfiteatro non si placherà prima di mezzanotte.

Ecclesiastici esotici avvinghiati a giovani fricchettoni, carampane sbilenche sottobraccio a bambine urlanti invasate di gioia selvaggia.

Altro che hippies ebefrenici del sessantotto, altro che coribanti di dionisiaci deliri, altro che febbri demenziali del sabato sera.

Questo è il “giubilo del cuore/che fa cantar d’amore” di Jacopone da Todi, il teatro della “divina folla”.

L’orgia della fede di Medjugorje supera qualsiasi sfida.

E’ decisamente troppo sia per un intellettuale che per un individuo abituato a un rigido quotidiano self control.

Perfino io, che non voglio riconoscermi nell’una né nell’altra di queste categorie, provo un certo imbarazzo a rimanere tra la folla dei fedeli e mi ritiro a passi colpevolmente cauti nel lindo appartamentino messo a mia disposizione dall’amica Reginella.

So che lascerò questo villaggio della gioia e del giubilo domani, massimo dopodomani.

A proposito, che musica accompagnerà la mia partenza?

I Deep Purple o magari – “absit iniuria verbi” – la rock star che ha usurpato il nome della Vergine?

A una valutazione attente, è sto meno deludente del previsto.

A pensarci bene, ho assistito a più di un miracolo (quel silenzio sul Podbrdo, quel recital perfetto, quell’entusiasmo incontenibile) e, soprattutto, sono apparso anch’io alla Madonna.

Ho la presuntuosa certezza che mi abbia trovato di suo gusto.

La simpatia, del resto, è reciproca.

Silvio Raffo

 5 agosto 2003